sabato 28 giugno 2008

Il crepuscolo del diritto


di MASSIMO GIANNINI


ESISTE una vera e propria vocazione del nostro tempo a vivere senza il diritto. Salvatore Satta, uno dei più grandi giuristi del Novecento italiano, lo scriveva nel novembre del '54, in un ciclo di discorsi poi confluiti nel saggio filosofico "Il mistero del processo". Viene da chiedersi cosa scriverebbe oggi di fronte al Lodo Alfano, col quale Silvio Berlusconi, da quell'insondabile "ossessione processuale" che lo insegue ormai da quindici anni, si sta per sottrarre per sempre.

L'approvazione in Consiglio dei ministri del disegno di legge che sospende i processi a beneficio delle quattro alte cariche dello Stato, per l'ennesima volta, marchia questa legislatura con il fuoco della personalizzazione della norma giuridica e della privatizzazione della cosa pubblica. Poteva essere una legislatura costituente, diventa una legislatura destabilizzante. Qui non c'entrano toghe rosse e pm mozza-orecchi, congiure giacobine e rivoluzioni giustizialiste. È l'improvvisa, convulsa manomissione delle regole messa in atto dal Cavaliere nel giro di due settimane, che dovrebbe far gridare allo scandalo chi ha ancora a cuore la qualità della democrazia, la difesa dei valori repubblicani, la tutela dei principi liberali.

Prima l'emendamento sulla sospensione dei processi, infilato surrettiziamente in un decreto legge in materia di sicurezza. Uno schiaffo multiplo: alle competenze del Capo dello Stato, alle esigenze dei cittadini. Ora il Lodo Alfano. Non è una "legge vergogna" in sé. Ma lo diventa per la genesi delle ragioni con le quali è stata congegnata, e per l'eterogenesi dei fini con la quale è stata approvata. È nata per evitare al presidente del Consiglio di sottoporsi alle ultime tre udienze, e poi alla sentenza, nel processo sul caso Mills, che lo vede imputato per corruzione in tatti giudiziari. È stata spacciata come una norma di "civiltà giuridica", uguale a quella che esiste in altri Paesi europei.

Il merito di questi provvedimenti è discutibile. Il Lodo Alfano è così ambiguo che, al comma 6, non chiarisce in modo netto se l'immunità assicurata al Berlusconi presidente del Consiglio possa "traslare", in corso di legislatura, anche all'ipotesi in cui lui stesso diventi nel frattempo presidente della Repubblica. Ma è soprattutto il metodo che è inaccettabile. Queste non sono misure di economia processuale o di garanzia costituzionale, che il governo in carica approva per venire incontro ai bisogni della collettività. Sono puri e semplici "salvacondotti" individuali, che un premier inquisito introduce a forza nell'ordinamento, per risolvere qui ed ora i suoi problemi ("O governo l'Italia o passo le giornate a preparare le udienze" ha detto in consiglio Berlusconi).

Nell'irresponsabile corto-circuito tra i poteri dello Stato, con l'esecutivo che usa il legislativo per domare il giudiziario, l'intero corso della vicenda pubblica assume una piega radicalmente diversa. Questo chiama in causa tutti gli attori della scena istituzionale, politica e sociale. Non si tratta di urlare forte ma invano al "fascismo", o di rifugiarsi nel rito rassicurante ma sterile del "girotondismo". Ognuno è chiamato ad esercitare fino in fondo il proprio compito, con realismo e senso di responsabilità. Ma anche con il rispetto doveroso del proprio ruolo, e con la forza necessaria delle proprie convinzioni, maggioritarie o minoritarie che siano.

Nelle istituzioni, il presidente della Repubblica e la Consulta sapranno usare tutta la saggezza, ma anche tutta la fermezza che serve a fronteggiare questi tentativi di ripiegare la vita nazionale su una biografia personale. La Costituzione gli attribuisce quanto basta, per non affidare la tenuta delle regole democratiche solo ai "messaggi in bottiglia" della moral suasion. Nella politica, l'opposizione ha il dovere di battersi fin dai prossimi giorni, in Parlamento, con parole nette e con proposte chiare. Senza improvvisare Aventini inutili o promettere "autunni caldi" improbabili. E soprattutto senza farsi paralizzare, attonita e inconcludente, di fronte al "totem" del dialogo, che ormai rischia di diventare una forma impropria di "ideologia della legislatura".

Il dialogo può essere un utile metodo di governo. Ma ha senso se precipita su un merito, su un oggetto concreto, di volta in volta sviscerato, riveduto, condiviso. Se Berlusconi continua a bastonare il Pd a colpi di Lodo Alfano, ed è lui stesso a dire "con loro non dialogo più perché rappresentano un'opposizione giustizialista", non ha molto senso che Veltroni continui a ribattere che a questo punto "il dialogo è compromesso". Il dialogo su cosa? Il dialogo con chi? Sulla giustizia, se le basi sono queste, molto più semplicemente il dialogo non c'è e non ci può essere. C'è lo scontro aperto, nelle sedi in cui questo è previsto, cioè le aule di Camera e Senato. Se poi tra un mese si avvia un confronto sul federalismo, o si apre un tavolo sulla legge elettorale, allora si valuta il da farsi. Ma intanto questo è lo stato dell'arte.

Quello che stupisce, e che a tratti inquieta, è che dopo la "rivoluzione light" del 13 aprile, e di fronte al vento del mutato Zeitgeist che gonfia le vele del Cavaliere, ci siano tanti, troppi benpensanti disposti a rinunciare alla difesa delle proprie idee. Per il puro e semplice timore di sentirsi fuori dal senso comune prevalente, esclusi dalla nuova "egemonia culturale" dominante. Il fatto oggettivo che "tanto ha già vinto tre volte le elezioni e può rivincerle anche la quarta", non è una ragione valida per turarsi il naso e dire sì al salvacondotto al Cavaliere. Per accodarsi e subire passivamente la lezione quasi eversiva di Giuliano Ferrara, che sul Foglio titola "nessuno lo può giudicare" e attacca "il corteo vociante dei giustizialisti", che avranno pure dalla loro "i commi e i codicilli", ma "hanno perso l'autorità civile per giudicare in nome del popolo italiano chi da quel popolo è stato eletto democraticamente".
L'alba nascente di questo "nuovo potere", autoritario e avvolgente, populista e popolare, non può coincidere con il lento crepuscolo del diritto. Piaccia o no ai sovrani di turno, una democrazia vive anche di quei commi e di quei codicilli.

da Repubblica.it (28 giugno 2008)

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