giovedì 30 ottobre 2008

Ho denunciato alle autorità competenti le parole di Cossiga

Con la seguente, vi porto a conoscenza che sabato mattina mi sono recato al commissariato di polizia di Lugo per denunciare le parole di Francesco Cossiga apparse sul Quotidiano Nazionale il 23 ottobre 2008.
Qualcuno doveva farlo.

Non possiamo permettere che la dignità degli italiani venga continuamente calpestata.
Sono ben conscio che il mio gesto rimarrà qualcosa di simbolico più che realmente efficace per contrastare tale sproloquio, ma se ognuno di noi si muovesse per fare ciò che è sua possibilità, forse qualche cosa potremmo cambiare, partendo dal basso.

Di seguito il video girato prima di entrare in commissariato, dove leggo integralmente quanto depositerò, in quanto non era naturalmente possibile filmare all'interno del commisariato:
http://it.youtube.com/watch?v=06d-9gCS1gI

Al momento attuale, è tutto depositato, non è ancora completamente attiva l'istanza in quanto i gentilissimi agenti mi hanno comunicato che anche per tutelare la mia posizione le cose andranno fatte seguendo i canali giusti, e per questo servirà circa una settimana.

Cordialmente sono a salutare.

Assirelli Luca

«Spesso abbiamo stampato la parola Democrazia. Eppure non mi stancherò di ripetere che è una parola il cui senso reale è ancora dormiente, non è ancora stato risvegliato, nonostante la risonanza delle molte furiose tempeste da cui sono provenute le sue sillabe, da penne o lingue. È una grande parola, la cui storia, suppongo, non è ancora stata scritta, perché quella storia deve ancora essere messa in atto.»
Walt Whitman

domenica 26 ottobre 2008

Shock nel sistema

[The Guardian], da Italia dall'estero

I tagli al budget e le riforme del sistema scolastico italiano hanno provocato un’ondata di proteste.

“Si tratta di una protesta davvero strana” riflette Teresa Bencetti in un caffé dietro l’angolo della scuola elementare di Roma Victor Hugo Girolami. Nessuno le ha proposto di rinunciare al proprio lavoro di insegnante di matematica e inglese, dice. Nessuno le ha proposto di ridurre il suo stipendio che, tolte le tasse, la lascia con 14,400€ circa annui. Ma il governo di centro-destra guidato da Silvio Berlusconi sta cercando di sottoporre il martoriato sistema scolastico italiano ad un terapia d’urto: la Bencetti e molte altre sue colleghe temono che produrrà più danni che risultati positivi.

La scorsa settimana studenti universitari e professori si sono uniti per la prima volta alla crescente ondata di proteste contro i tagli e le riforme imposte dal giovane Ministro dell’istruzione di Berlusconi, Mariastella Gelmini. Le critiche ritengono che le scuole torneranno indietro di almeno 30 anni. A seguito di manifestazioni e sit-in, la maggiore coalizione sindacale ha proclamato una giornata di sciopero generale per l’istruzione il 30 ottobre.

La posta in palio è altissima. Gli economisti sono tutti d’accordo nell’identificare uno dei motivi chiave per cui l’Italia è diventata, negli ultimi 10 anni, il fanalino di coda dell’Europa nel fatto che il sistema educativo non si sia adeguato alle esigenze di una società della conoscenza. “Non lo facciamo per noi stessi, ci interessa il futuro dei nostri alunni” dice Letizia Baldoni, che insegna italiano.

La Victor Hugo Girolami si trova nel quartiere di Monteverdi Nuovo che Paola Pandolfi, un’altra insegnante, definisce di “classe medio-alta”. Tuttavia la scuola non ha la banda larga e possiede solo una dozzina di computer per 500 bambini. I soldi non dovrebbero essere un problema. La patria natìa di Maria Montessori spende per i suoi alunni tra i 6 e gli 11 anni molto di più della media dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OECD). I soldi scarseggiano invece nell’educazione secondaria. Ma anche qui, la spesa media per studente è 5.700 euro, poco sotto la media della OECD.

Il nocciolo della questione è che le risorse a disposizione sono gestite male - o, meglio, in maniera non proficua. Circa il 79% del budget destinato all’istruzione viene divorato dagli stipendi. Tuttavia gli insegnanti non sono particolarmente ben retribuiti. Nella scuola elementare, guadagnano il 78% della media OECD (anche se hanno un carico di lavoro minore: 24 ore settimanali di base). Il problema è dunque che ce ne sono troppi. L’Italia è un paese caratterizzato da settimane corte, giornate lunghe e classi piccole, spesso in scuole di modeste dimensioni.

Paragoni a livello internazionale

L’educazione elementare, comunque, ottiene ottimi risultati se comparata a livelli internazionali. Uno studio della OECD pubblicato il mese scorso piazza l’Italia tra il quinto e l’ottavo posto secondo diversi criteri in una classifica che analizza le 30 nazioni più ricche. I problemi iniziano nella scuola secondaria. La performance degli adolescenti italiani nei test Pisa (programma internazionale di valutazione degli studenti) è stato un disastro. Nell’ultimo, fatto nel 2006, gli studenti sono stati i peggiori tra Spagna, Francia, Germania, Regno Unito e USA (anche se con enormi differenze di risultati tra il ricco nord e le zone meridionali più povere).

Durante gli ultimi anni si sono anche registrati dei disgustosi episodi di bullismo, violenza e molestie di insegnanti nei confronti degli alunni. Tali eventi, più di ogni altra cosa, hanno portato a parlare di una “emergenza istruzione”.

Gelmini, figlia di un maestro di scuola elementare, ha ottenuto l’incarico ad aprile prendendosi l’impegno di affrontare il problema. Ma, in un periodo in cui l’Italia ha difficoltà a restare nei limiti di budget imposti dalla comunità europea, il Ministro è anche costretta ad attenersi alle esigenze di un budget molto limitato. Il problema che sta affrontando dunque è notevolmente difficile - migliorare qualità e disciplina e, nel contempo, contenere le spese. Nessuno può accusarla di compiacenza. Non è passato neanche un giorno, da quando è diventata ministro, senza qualche titolo di giornale dedicato all’istruzione. La prima mossa del Ministro 35enne è stata annunciare una riduzione delle spese di 7,8 miliardi di euro.

In netto contrasto con quanto accade in Inghilterra, il grosso dei tagli sono stati diretti alle scuole elementari che sono in realtà l’unica parte del sistema che funziona (le università sono un problema ancora più spinoso delle scuole). Molte piccole scuole saranno costrette a chiudere - 260 solo nel Lazio, la regione in cui si trova Roma. Circa 87.000 posti di insegnante e 45.000 posti di insegnanti di sostegno verranno tagliati.

Il governo assicura che nessuno perderà il proprio posto di lavoro. I risparmi verranno ricavati nei prossimi 3 anni accademici attraverso le mancate assunzioni. Tuttavia, questa è una magra consolazione per le decine di migliaia di precari - insegnati giovani e senza contratto fisso le cui speranze di una carriera nel settore dell’istruzione saranno frustrate sino al 2012 e, in molti casi, abbandonate per sempre. Gli oppositori di questa politica del governo sostengono, tra le altre cose, che ciò ha ostacolato il ricambio generazionale degli insegnanti.

Attualmente, i genitori degli alunni delle scuole elementari hanno una sola scelta. Possono iscrivere i propri figli per cinque mattine e due pomeriggi a settimana: in questo caso i bambini dovranno fare più compiti a casa. Oppure possono optare per 40 ore. Il “tempo pieno”, come si dice, è molto utile per una famiglia in cui entrambi i genitori lavorano. La riforma Gelmini cancella questi sistemi sostituendoli con 24 ore a settimana.

Ma il cambiamento che ha acceso le polemiche - anche se non il dibattito, visto che è stato imposto al parlamento attraverso l’equivalente italiano della “ghigliottina” [per decreto legge, N.d.T.] - è stata la reintroduzione del sistema del “maestro unico” nelle scuole elementari come la Victor Hugo Girolami. Persino qualche alleato di Berlusconi, capeggiati dal leader della Lega Nord Umberto Bossi, si è mostrato contrario a questo provvedimento quando è stato reso pubblico.

La Pandolfi, che insegna storia dell’arte e italiano, adesso affronta la tremenda prospettiva di dover insegnare ad un’intera classe l’intera gamma di materie, incluse quelle di cui non ha una conoscenza adeguata. “Questo sistema esisteva 30 anni fa” dice. “Ormai, le materie che insegniamo sono molto più complesse. E molto più pesanti. Si ha bisogno di un ampio bagaglio di conoscenze per insegnarle in maniera adeguata.”

Il ritorno al maestro unico è solo uno degli elementi che il Ministro ombra dell’istruzione, Maria Pia Garavaglia, definisce criticamente “Operazione Nostalgia”. Così come molti italiani considerano compiaciuti gli anni ‘50 e ‘60 un’età aurea di crescita economica e stabilità politica, così hanno la tendenza a vedere le scuole del passato come una soluzione ai problemi del presente.

Voto in condotta

La Gelmini chiaramente condivide questa visione. Ha reintrodotto i voti di condotta, che erano stati aboliti 10 anni fa. Sta considerando la re-introduzione delle uniformi scolastiche. Ha inoltre invitato i presidi a promuovere i grembiulini, che sembravano destinati all’estinzione, così come è successo in altre nazioni dell’Europa occidentale, eccetto per le lezioni di arte. La Pandolfi è preoccupata dal fatto che qualsiasi beneficio che queste misure possono portare sarà spazzato via dall’abolizione dell’insegnamento a tempo pieno nelle scuole elementari. “Nelle zone meno agiate, il “tempo pieno” serve a tenere i ragazzi lontani dalle strade” dice.

La sofisticata interpretazione è che la Gelmini stia costruendo le fondamenta per chiedere maggiori risorse per affrontare il problema più difficile costituito dalla riforma della scuola secondaria. Un sondaggio dello scorso mese rileva che è stata il membro di governo più popolare, con un indice di approvazione del 66%. Ma il rischio è che, con l’Italia che si dirige ancora una volta verso una recessione che metterà a dura prova le finanze pubbliche, il tesoro chiuderà il rubinettouna volta che i tagli entreranno in vigore.

Giacomo Vaciago, professore di economia politica alla Università Cattolica di Milano, nonché uno delle maggiori autorità in materia di istruzione, è fortemente critico nei confronti del sistema attuale. Tuttavia crede che l’approcio del governo sia “ingenuo e conservatore”. “L’idea sembra essere che se torniamo al passato ritroveremo la vecchia qualità - un assunto alquanto ingenuo. La qualità è qualcosa che non si ottiene facilmente con grembiulini e disciplina.”

[Articolo originale di John Hooper]

Scuole fuori

[The Economist], da "Italia dall'estero"

I piani per riformare il sistema scolastico italiano provocano critiche.

L’Italia potrebbe essere sul punto di una recessione, ma il 2009 offre la promessa di una crescita senza precedenti per Siggi, un’impresa tessile vicino Vicenza nel nord est del paese. Siggi è il più grande produttore di grembiuli, o divise scolastiche. Un tempo molto diffuse nella scuola elementare italiana, sono passate di moda, come le boccettine di inchiostro. Ma a luglio il ministro dell’educazione Mariastella Gelmini ha puntato sulla reintroduzione dei grembiuli per combattere l’imbarazzo determinato da differenze di classe e di vestiti firmati fra gli alunni. La produzione di Siggi quest’anno ha quasi fatto il tutto esaurito e il suo presidente Gino Mara ha detto che “il prossimo anno ci potrebbe essere un vero e proprio boom” .

La decisione di far indossare il grembiule agli alunni è lasciata agli insegnanti di ruolo. Ció non figura in nessuno dei due disegni di legge per l’istruzione introdotti dalla Gelmini, ma è diventato un simbolo dei suoi sforzi volti a scuotere l’istruzione italiana. Le critiche sostengono che tutto ciò sia un vano tentativo di far tornare indietro l’orologio; i suoi sostenitori lo considerano un primo passo necessario per un sistema più equo ed efficiente.

Il 30 ottobre i contrasti da lei suscitati culmineranno in una giornata di sciopero degli insegnanti. I sindacati denunciano principalmente il programma di tagli volti a risparmio di quasi 8 miliardi di euro (11 miliardi di dollari). Questo include la perdita naturale di 87.000 posti di lavoro di insegnanti nel corso dei tre anni accademici fino al 2012 e il ritorno ad un sistema con un unico insegnante nella scuola elementare.

Se la riforma si limitasse solo a questo, si potrebbe rivelare disastrosa come i rappresentanti di sindacati ed opposizione prevedono (studi internazionali dimostrano che le scuole elementari sono l’unica parte dell’educazione italiana che funziona bene). Tuttavia è anche previsto che il 30% dei fondi risparmiati saranno reinvestiti nelle scuole. I sostenitori della Gelmini sperano che li riuserà per raddrizzare i paralizzanti squilibri nell’educazione, una delle più grandi debolezze economiche strutturali d’Italia.

Un problema è la grande quantità di insegnanti mal pagati, dice Roger Abravanel, autore di un recente libro sulla meritocrazia. “ Il numero di insegnanti per 100 studenti è uno dei più alti nell’OECD, Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico”. L’educazione, particolarmente nel sud, è stata spesso usata dai politici per il patronato politico e per la creazione di posti di lavoro. Questo potrebbe spiegare perché, nonostante studino più a lungo e in classi più piccole, gli studenti italiani delle superiori reggono malamente i confronti internazionali. “ Il nord è intorno alla media dei Paesi dell’OCSE, ma il sud è alla pari con l’Uruguay e la Thailandia” dice Abravanel. Giacomo Vaciago, professore di economia all’Università Cattolica di Milano, dice che anche se per il momento il dibattito è sui tagli, il grande problema è la qualità, che è a casaccio”.

Alla presentazione delle ultime riforme, al fianco della Gelmini il Presidente del Consiglio italiano Silvio Berlusconi ha promesso che, dal 2012, i migliori insegnanti otterranno un premio di € 7.000. Ma l’onorevole Vaciago è scettico sulla riuscita di questi piani. “L’attuale governo sta facendo tagli e sta sperando che il risultato immediato sia un aumento di qualità. Non vi è alcuna garanzia evidente che sarà così” ha commentato.

[Articolo originale]

venerdì 24 ottobre 2008

Gandhi, la scuola e le televisioni

di Peter Gomez

Non c'è nulla di casuale
nelle dichiarazioni seguite da smentita di Silvio Berlusconi sulla polizia nelle scuole. Il Cavaliere quando parla segue una strategia precisa. Da una parte vuole saggiare le reazioni dell'opinione pubblica abituandola a poco a poco all'idea che contro gli studenti si può utilizzare la forza, dall'altra tenta di distogliere l'attenzione dal nocciolo del problema: ai tagli di spesa nella scuola si è provveduto con un decreto legge senza consultare nessuno.

Il decisionismo, del resto, in giorni in cui cinque telegiornali su sei si limitano a fare da megafono del potere, paga. Quello che la maggior parte degli italiani hanno capito del decreto Gelmini è infatti semplice: alle elementari si ritornerà a mettere il grembiule e nelle classi si tornerà ad avere un solo maestro. Tutto il resto passa in secondo piano. Ovvio che in un paese di anziani come il nostro la controriforma, raccontata così, raccolga ampi consensi. Il grembiule (che oltretutto non è un'idea da buttar via) e il maestro unico riportano alla mente della gente i bei tempi andati. Tempi che, man mano si va avanti con gli anni, sono sempre migliori dei presenti.
Non bisogna quindi farsi ingannare dalle manifestazioni. Chi protesta, per quanto numerosi siano i cortei, per il momento rappresenta solo la minoranza dei cittadini. La situazione può però cambiare rapidamente. La controriforma, per come è stata concepita, è destinata a toccare ampi strati della popolazione, a incidere direttamente sulla vita delle famiglie. Ma, nella gran parte dei casi, non lo farà subito. Molti cambiamenti avverranno lentamente. Per questo Berlusconi si lamenta dei giornali e a parole sminuisce la portata degli interventi (il maestro unico, per esempio, nei discorsi del premier diventa maestro prevalente): il suo obiettivo è prendere tempo e far sì che non si conoscano troppo bene gli esatti contenuti delle nuove norme.

Col passare dei giorni e il crescere delle proteste la probabilità che si verifichi qualche incidente (quasi inevitabile quando migliaia di persone molto giovani scendono in piazza) aumenta. E gli incidenti, che Berlusconi con i suoi interventi sembra voler evocare, rappresenterebbero per lui una vittoria. Le tv ci metterebbero un secondo ad amplificarne la portata innescando una serie di reazioni a catena difficilmente prevedibili.

Che fare allora? Quattro cose: ricordarsi di Gandhi che con la non violenza liberò una nazione, non accettare provocazioni, organizzare proteste sempre più "mediatiche" che possano trovar spazio nei telegiornali, presentare poche e chiare controproposte. Che nel mondo della scuola e delle università si disperdano inutilmente molti capitali è un fatto. Che sia necessaria una razionalizzazione delle spese è un altro fatto (pensiamo, per esempio, alle norme che hanno consentito l'apertura di nuovi atenei in quasi ogni capoluogo di provincia e la creazione di corsi di laurea in materie che non permetteranno a nessuno di trovare occupazione).

Insomma anche manifestando studenti e docenti dovranno continuare a lavorare. Serve subito una piattaforma precisa. Un programma per punti sul quale il governo sia costretto ad aprire la discussione.

leggi anche:
"Conferenza stampa Veltroni - Fioroni in risposta al Ministro Gelmini ed al Premier" - da Radio Radicale

giovedì 23 ottobre 2008

Inquietante....

Dalla conferenza stampa di Silvio Berlusconi di ieri.

“Non permetterò l’occupazione delle università. L’occupazione di luoghi pubblici non è la dimostrazione dell’applicazione della libertà, non è un fatto di democrazia, è una violenza nei confronti degli altri studenti che vogliono studiare. Convocherò oggi il ministro degli Interni, e darò a lui istruzioni dettagliate su come intervenire attraverso le forze dell’ordine per evitare che questo possa succedere. La realtà di questi giorni è la realtà di aule piene di ragazzi che intendono studiare e i manifestanti sono organizzati dall’estrema sinistra, molto spesso, come a Milano, dai centri sociali e da una sinistra che ha trovato il modo di far passare nella scuola delle menzogne e portare un’opposizione nelle strade e nelle piazze alla vita del nostro governo”.

Da un’intervista rilasciata dal senatore Francesco Cossiga al quotidiano La Nazione.

Domanda - Presidente Cossiga, pensa che minacciando l’uso della forza pubblica contro gli studenti Berlusconi abbia esagerato?

Risposta - Dipende, se ritiene d’essere il Presidente del Consiglio di uno Stato forte, no, ha fatto benissimo. Ma poiché l’Italia è uno Stato debole, e all’opposizione non c’è il granitico PCI ma l’evanescente PD, temo che alle parole non seguiranno i fatti e che quindi Berlusconi farà una figuraccia.

D - Quali fatti dovrebbero seguire?

R - Maroni dovrebbe fare quel che feci io quand’ero Ministro dell’interno.

D – Ossia?

R - In primo luogo, lasciar perdere gli studenti dei licei, perché pensi a cosa succederebbe se un ragazzino rimanesse ucciso o gravemente ferito…

D - Gli universitari, invece?

R - Lasciarli fare. Ritirare le forze di polizia dalle strade e dalle università, infiltrare il movimento con agenti provocatori pronti a tutto, e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino i negozi, diano fuoco alle macchine e mettano a ferro e fuoco le città. Dopo di che, forti del consenso popolare, il suono delle sirene delle ambulanze dovrà sovrastare quello delle auto di polizia e carabinieri.

D - Nel senso che…

R - Nel senso che le forze dell’ordine non dovrebbero avere pietà e mandarli tutti in ospedale. Non arrestarli, che tanto poi i magistrati li rimetterebbero subito in libertà, ma picchiarli e picchiare anche quei docenti che li fomentano.

D - Anche i docenti?

R - Soprattutto i docenti.

D - Presidente, il suo è un paradosso, no?

R - Non dico quelli anziani, certo, ma le maestre ragazzine sì. Si rende conto della gravità di quello che sta succedendo? Ci sono insegnanti che indottrinano i bambini e li portano in piazza: un atteggiamento criminale!

D - E lei si rende conto di quel che direbbero in Europa dopo una cura del genere? In Italia torna il fascismo, direbbero.

R - Balle, questa è la ricetta democratica: spegnere la fiamma prima che divampi l’incendio.

D - Quale incendio?

R - Non esagero, credo davvero che il terrorismo tornerà a insanguinare le strade di questo Paese.


Da Pieroricca.org, col titolo "Istruzioni dettagliate"

La scuola, le banche, la Gelmini

Da Vanity Fair, 22 ottobre 2008

Sono belli e allegri i cortei di questi giorni contro la riforma della scuola ideata dagli staff dei ministri Tremonti & Brunetta e poi passata sotto banco, durante l’intervallo, alla ministra Mariastella Gelmini, che a ogni interrogazione in pubblico, e con notevoli occhiali, la difende a memoria.

Sono belli, allegri e irriverenti, come è giusto che sia (“taglia taglia e il bambino raglia”) in omaggio, anche, alla giovinezza. Sono persino educati. Infinitamente più educati di quanto non lo siano gli adulti, non solo i politici, che stanno (che stiamo) furiosamente scassando il mondo, incapaci di distribuire un po’ di riso, un po’ di medicine, un po’ di acqua pulita, un po’ di contraccettivi per alleviarne la deriva. Ma capacissimi di moltiplicare guerre e crolli finanziari. Consumi e fallimenti. Trovando in tre settimane migliaia di miliardi di dollari per salvare le banche, ma nulla, o quasi nulla, da decenni, per salvare qualche ragazzino africano dalla malaria e comprare dei banchi in più per gli scolari di Scampia.

Dicono che gli studenti ne sappiano poco o nulla della riforma della scuola e che protestino per niente. Il niente sarebbero i grembiulini, il sette in condotta, il maestro unico e magari le classi dell’apartheid padana. Ma se davvero fossero niente, allora perché la riforma? E se non prevedesse il taglio di classi, di scuole, di posti di lavoro, e di buon senso, perché affannarsi a vararla? Per licenziare un po’ di bidelli? Ma no, dice la signora Gelmini. La quale sa anche sorridere mentre spiega che tagliando qui e là si rimetterà ordine al disordine scolastico, ci sarà più disciplina e più premi ai meritevoli. La sua carriera lo dimostra. Le classi dirigenti lo dimostrano e il mondo che ne consegue pure. Sarà quel suo sorriso lieto a irritare i ragazzi più della riforma, oppure solo le bugie?

di Pino Corrias

martedì 21 ottobre 2008

Il Paese senza futuro

Sono tempi oscuri e minacciosi per i ricercatori in Italia. A sostenerlo non sono i “camici rossi” disseminati nei laboratori del nostro Paese e sempre pronti - a detta di certa stampa - ad attaccare il governo Berlusconi. Ma è la più autorevole rivista scientifica al mondo, Nature, in un editoriale nel fascicolo appena pubblicato. I motivi alla base della critica, per nulla velata, avanzata da Nature alla politica della ricerca del governo Berlusconi sono sia congiunturali che strategici.



Quelli congiunturali sono almeno tre. Il primo riguarda il blocco della procedura di stabilizzazione dei precari negli Enti pubblici di ricerca voluto dal ministro Renato Brunetta. Il blocco impedirà ad almeno 2.637 “stabilizzandi” - ovvero con titoli già maturati - non solo di avere contratto a tempo indeterminato, ma di poter continuare a lavorare nel mondo della ricerca pubblica. Chi non sarà stabilizzato sarà, di fatto, cacciato via, come ha denunciato ieri in una intervista all’Unità l’ex ministro dell’Università Fabio Mussi. Così, in un colpo solo, il Paese rinuncerà a quasi il 4% delle sue risorse umane nella ricerca, mentre il tutto il mondo l’universo dei ricercatori tende a crescere. In realtà il danno sarà ancora più grande. Perché il blocco voluto da Brunetta toglie la speranza di un lavoro stabile da decine di migliaia di altri precari, creando le premesse per una fuga di massa dei giovani dalla ricerca scientifica in Italia.

Il secondo motivo congiunturale (ma non troppo) riguarda il taglio dei fondi alle università e il blocco quasi totale del turn-over: in pratica nei prossimi 5 anni gli atenei italiani dovranno rinunciare a 4 miliardi di euro. Il che significa che ci saranno meno risorse a disposizione, materiali e umane, sia per la didattica che per la ricerca. Un rischio tanto più grave se si tiene conto che il governo ha deciso che i fondi per l’università e la ricerca potranno essere utilizzati per coprire le eventuali perdite del sistema finanziario.

Il terzo motivo congiunturale, sottolineato in maniera particolare da Nature, è il totale e singolare silenzio del ministro competente, la signora Mariastella Gelmini, che si limita ad assistere senza interferire alle decisioni politiche assunte in altra sede (dal minsitro del’Economia Tremonti e dal ministro della Funzione pubblica Brunetta). Di fatto nessuno, nel governo Berlusconi, difende le ragioni della ricerca.

La rivista Nature propone, poi, due motivi strutturali alla base della sua critica. La prima è l’indicazione, contenuta nella legge 133/08, che le università potranno trasformarsi in fondazioni private. A volerla prendere sul serio, questa norma rappresenta una svolta epocale: la conoscenza acquisibile mediante l’educazione terziaria cessa di essere in linea di principio un bene pubblico e diventa un bene di mercato, accessibile solo ai più ricchi. A volerla prendere come l’hanno presa i rettori, la norma sembra preludere a ulteriori tagli della risorse pubbliche a favore delle università.

Ma la principale ragione di critica fatta propria da Nature alla politica della ricerca italiana è il suo andare in direzione opposta rispetto alla strada indicata dall’Unione europea nel 2000 a Lisbona (l’Europa leader dell’economia della conoscenza) e ribadita nel marzo 2002 a Barcellona (investimenti in ricerca pari ad almeno il 3% del Pil entro il 2010). Quasi tutti i paesi europei sono lontani dalla soglia di Barcellona: la media europea è ora attestata all’1,8%. Ma nessuno - tranne l’Italia - sta diminuendo i suoi investimenti, pur essendo in coda al convoglio (l’Italia investe l’1,0% del Pil in ricerca).

L’economia della conoscenza è unanimemente considerata l’economia più solida per costruire il futuro (sostenibile) delle nostre società. Per realizzarla la ricerca scientifica (di base e applicata) e lo sviluppo tecnologico sono assolutamente necessari, ma non bastano. Occorre un intero “pacchetto conoscenza”, ovvero investimenti importanti nell’educazione (primaria, secondaria e terziaria), oltre che in ricerca. Ebbene, anche nel settore educazione l’Italia è più indietro degli altri Paesi. Secondo l’Ocse l’Italia investe nel “pacchetto conoscenza” il 5,4% del Pil, contro il 7,5% circa di Francia, Germania, Gran Bretagna e Giappone, o addirittura il 10% circa di Stati Uniti, Corea e Svezia.

Gli altri investono molto e tendono ad aumentare i loro investimenti in conoscenza. Noi investiamo poco e tendiamo a diminuire gli investimenti in conoscenza. Gli altri costruiscono nuovi e larghi ponti verso il futuro. Noi stiamo incomprensibilmente tagliando i piloni a quei pochi e stretti che ci restano.

di Pietro Greco, l'Unità,it

sabato 18 ottobre 2008

Nuova legge minaccia i posti di lavoro dei ricercatori italiani

Pubblico un altro articolo apparso sulla prestigiosa rivista "Nature" (forse la più autorevole testata giornalistico-scientifica) riguardante il terrificante futuro che aspetta i ricercatori italiani.

Mi chiedo, e vi chiedo: è mai POSSIBILE che in questo ca..o di Paese queste cose le apprendiamo da una rivista estera (Inglese) e non dai media nostrani??

Io sono sgomento.


Pubblicato Mercoledì 15 Ottobre 2008 in Inghilterra da "Nature"

Gli scienziati protestano per i tagli dei costi decisi dal governo.

Quasi 2.000 ricercatori italiani perderanno i contratti a tempo indeterminato loro promessi, a causa di una legge che dovrebbe entrare in vigore entro la fine dell’anno. Potrebbero dover abbandonare del tutto la ricerca pubblica.

La scorsa settimana, la Camera dei Deputati del nuovo governo di centro-destra di Silvio Berlusconi ha esaminato il disegno di legge, che mira a ridurre la spesa pubblica attraverso la razionalizzazione del servizio pubblico. Vari ricercatori si sono messi in vendita su eBay, come parte di una campagna che ha anche coinvolto decine di migliaia di manifestanti in corteo per le strade di Roma e di altre città.

La proposta di legge si oppone esplicitamente ad un’altra legge approvata dal precedente governo di centro-sinistra, secondo la quale i ricercatori precari da molto tempo potrebbero essere assunti in modo permanente, se adeguatamente qualificati. La legge proibisce inoltre che gli scienziati vengano assunti tramite una serie di contratti a breve termine, e coloro che sono già stati selezionati per l’assunzione a tempo indeterminato, avendo accumulato piú di tre anni di contratto negli ultimi cinque anni, saranno ora lasciati per strada.

Renato Brunetta, Ministro per la amministrazione pubblica e l’innovazione che ha progettato la nuova legge, ha fatto infuriare ulteriormente gli scienziati definendo molti dipendenti pubblici come dei “fannulloni”.

I ricercatori in Italia sono dipendenti pubblici e il numero di posti disponibili è determinato dal governo centrale, piuttosto che dai singoli enti di ricerca. L’ultimo decennio non ha visto quasi nessuna nuova assunzione e, di conseguenza, il numero di ricercatori con contratto temporaneo è schizzato alle stelle. Ci sono almeno 4.500 impiegati con contratti temporanei da molti anni - conosciuti come “precari”, in riferimento alla loro occupazione incerta - che si barcamenano tra un contratto a tempo determinato ed il successivo.

Gli scienziati dicono che la loro protesta non è diretta contro il sistema tradizionale del post-dottorato, bensí contro il malsano squilibrio tra posizioni precarie e assunzioni a tempo indeterminato. “Abbiamo uno squilibrio patologico perché le nuove assunzioni a tempo indeterminato sono state bloccate” afferma Luciano Maiani, presidente del CNR, il Consiglio Nazionale delle Ricerche italiano.

Come risultato delle proteste, Brunetta afferma che ai ricercatori sarà dato tempo fino al 1 luglio 2009, mentre lui esaminerà le loro richieste. Ma i presidenti dei vari enti di ricerca italiani ritengono che l’unica via d’uscita da questa situazione sia dare maggiore autonomia ai singoli enti sugli impieghi statali.

“Il governo deve riconoscere l’alta formazione professionale dei ricercatori - non è opportuno rientrare nel regolamento della categoria degli impiegati statali” spiega Enzo Boschi, presidente di Italia Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia.

Claudio Gatti è un fisico delle particelle presso l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare di Frascati, che sta per perdere il contratto a tempo indeterminato promessogli a causa della proposta di legge. Egli afferma che “nel sistema di ricerca italiano non c’è programmazione, mobilità e neppure futuro - ma siamo pronti a lottare per i nostri diritti con tutti i mezzi legali a nostra disposizione”.

Il Ministro della ricerca e dell’istruzione Mariastella Gelmini non ha commentato pubblicamente la situazione e non ha risposto alle richieste di commenti da parte di Nature.

[Vedi anche l'editoriale di Nature ]

[Articolo originale di Emiliano Feresin, Alison Abbott]

venerdì 17 ottobre 2008

Tagli spietati

Pubblicato Mercoledì 15 Ottobre 2008 in Inghilterra su [Nature], tradotto da Italia dall'estero

Nel tentativo di accelerare la sua arrancante economia, il governo italiano si concentra su obiettivi facili, ma sconsiderati. È un periodo buio e arrabbiato per i ricercatori in Italia, esposti ad un governo che mette in atto la sua strana filosofia per il taglio dei costi. La settimana scorsa, decine di migliaia di ricercatori sono scesi in strada per manifestare la loro opposizione ad una proposta di legge volta a frenare la spesa pubblica. Se passa, come previsto, la legge provocherebbe il licenziamento di quasi 2000 ricercatori precari, che costituiscono l’ossatura degli istituti di ricerca italiani perennemente a corto di personale - e metà di essi sono già stati selezionati per posizioni a tempo indeterminato.

Proprio durante la manifestazione dei ricercatori, il governo di centro-destra di Silvio Berlusconi, che è tornato al governo lo scorso maggio, ha deciso che i fondi di università e ricerca potrebbero essere usati per aiutare le banche e gli istituti di credito italiani. Questa non è la prima volta che Berlusconi ha bersagliato le università. Ad agosto ha firmato un decreto che tagliava i fondi universitari del 10% e ha permesso di coprire solo una posiziona accademica vuota su cinque. Ha anche permesso alle università di trasformarsi in fondazioni private per ottenere introiti aggiuntivi. Dato il clima attuale, i rettori universitari ritengono che l’ultimo passo sarà usato per giustificare ulteriori tagli ai fondi e che alla fine li costringerà a cancellare i corsi che non hanno grande valore commerciale, come gli studi classici o addirittura le scienze di base. La notizia è arrivata all’inizio delle vacanze estive, ma le conseguenze sono state comprese pienamente solo ora - troppo tardi, visto che il decreto sta per essere trasformato in legge.

Nel frattempo, il Ministro per l’educazione, l’università e la ricerca, Mariastella Gelmini, non si è espressa in merito a tutte le questioni relative al suo ministero tranne quella sulle scuole secondarie e ha permesso che decisioni governative consistenti e distruttive fossero eseguite senza fare alcuna obiezione. Ha rifiutato di incontrare i ricercatori e gli accademici per ascoltare le loro preoccupazioni o per spiegare loro le direttive che sembrano richiedere il loro sacrificio. Inoltre non ha neppure delegato un sottosegretario che si occupi di tali questioni al suo posto.

Le organizzazioni scientifiche colpite dalla legge sono tuttavia state ricevute dall’ideatore della legge, Renato Brunetta, Ministro della pubblica amministrazione e innovazione. Brunetta ritiene che si possa fare ben poco per fermare o modificare la legge, anche se è ancora in discussione nei vari comitati e deve ancora essere votata in entrambe le camere. In un’intervista ad un quotidiano, Brunetta ha paragonato i ricercatori ai “capitani di ventura” [sic N.d.T.], mercenari avventurieri del rinascimento, dicendo che dar loro un lavoro permanente equivarrebbe quasi ad ucciderli. Ciò mistifica un problema che i ricercatori gli avevano spiegato: che la ricerca di base di un paese richiede un adeguato rapporto tra il personale permanente e quello precario, con i ricercatori precari (per lo più post-dottorati) che si spostano tra laboratori di ricerca permanenti, stabili e ben equipaggiati. In Italia, come hanno tentato di spiegare a Brunetta, questo rapporto è tutt’altro che adeguato.

Il governo Berlusconi può anche ritenere che siano necessarie delle misure finanziare severe, ma i suoi attacchi alla ricerca di base italiana sono avventati e poco lungimiranti. Il governo ha trattato la ricerca semplicemente come un’altra spesa da tagliare, quando invece dovrebbe essere considerata un investimento per costruire l’economia del sapere del ventunesimo secolo. In effetti l’Italia ha già sposato questo concetto aderendo alla Strategia di Lisbona 2000 dell’Unione Europea, in cui gli stati membri hanno promesso di aumentare i fondi di ricerca e sviluppo (R&D) fino al 3% del loro prodotto interno lordo. L’Italia, un paese del G8, ha una delle spese in R&D più basse del gruppo, essendo appena dell’1.1%, meno della metà di quanto spendono nazioni comparabili come la Francia e la Germania.

Il governo non deve considerare solo i guadagni a breve termine attuati attraverso un sistema di decreti facilitato da ministri compiacenti. Se vuole preparare un futuro realistico per l’italia, come dovrebbe, il governo non dovrebbe riferirsi pigramente al passato, ma capire come funziona la ricerca in Europa oggi.

[Articolo originale]

mercoledì 15 ottobre 2008

Università Pubblica a Rotoli

A tutti gli utenti del blog:

Vista la tragica situazione a cui sta andando incontro l'Università pubblica vorrei potervi inviare un utile Power Point, chiaro e semplice che spiega i danni che apporterà la legge 133.

Chi fosse interessato lasci nei commenti la sua email e io glielo invierò!

Facciamo passaparola!

martedì 14 ottobre 2008

Il “dissanguamento” dell’accademia italiana

dal sito Italia dall'estero

[Deutschlandfunk] 8/10/08

Nuovo atto nel dramma delle università italiane.

Le università italiane si trovano di fronte ad una nuova ondata di tagli promossa dal governo Berlusconi. Una nuova legge impone che solo un posto di lavoro su cinque tra quelli liberati nelle istituzioni statali per via di pensionamenti potrà essere rioccupato. Una delle conseguenze è che i giovani laureati italiani che cercano di entrare nel mondo del lavoro fuggono all’estero.

“Tutto questo non è un caso. C’è una strategia precisa alla base. Si mira alla rovina delle università statali attraverso un taglio sostanziale dei finanziamenti in modo che le università private ne traggano vantaggio”.

Mariangela Staccani è una ragazza con una brillante laurea in chimica e un dottorato ottenuto con il massimo dei voti. Quest’autunno avrebbe dovuto iniziare a lavorare all’Università di Roma La Sapienza con un contratto di ricercatrice per tre anni. Nonostante gli esperti considerino la trentenne come una delle persone più qualificate tra i chimici della sua generazione, Mariangela è ora disoccupata. A causa dei limiti nelle assunzioni previsti dalla legge promulgata dal governo di centro-destra di Silvio Berlusconi, non può iniziare il lavoro che le era stato promesso:

“Questo è il primo atto della lunga storia verso la rovina delle università statali: in primo luogo si tagliano fuori i giovani ricercatori e poi (si) riducono i finanziamenti per la ricerca. In questo modo si dissangua tutto il sistema mentre fare ricerca diventa impossibile. Tutta la comunità scientifica si deve opporre.”

Ed è proprio questo che la comunità scientifica intende fare. Gli studenti, i giovani ricercatori e la Conferenza dei Rettori delle Università italiane si sono mobilitati contro le conseguenze dei nuovi tagli che si sono concretizzati all’inizio del nuovo anno accademico e sono ora evidenti in diversi settori.

La nuova legge sulle università prevede che per ogni cinque posti che si liberano per motivi di anzianità nelle istituzioni statali solo uno venga rioccupato. In questo modo, ha detto il ministro delle Finanze Giulio Tremonti, vero deus ex machina di questa legge, si potrà risparmiare molto. Infatti, secondo l’opinione del ministro, sono molte le istituzioni scientifiche statali ad avere più dipendenti del necessario. Questo è certamente vero in alcuni casi, ma lo stesso non può valere in generale per tutte le università, afferma Giancarlo Zavattini, vice rettore della Sapienza a Roma:

“Le nostre previsioni mostrano dove condurrà questo sistema. Se per ogni cinque professori o ricercatori che vanno in pensione solo uno verrà sostituito questo porterà invevitabilmente al dissanguamento del nostro corpo docenti. Conosco alcune università come quella di Benevento o del Molise, che nei prossimi anni non potranno liberare alcun posto. In tal modo queste università perderanno attrattivà tra i giovani accademici. Dove andranno allora i giovani ricercatori? A questa domanda, la nuova legge non dà risposta.”

Dall’entrata in vigore della nuova legge sulle università caute proiezioni mostrano come diverse centinaia di posti di lavoro per giovani ricercatori hanno dovuto essere eliminate. Il CENSIS, l’istituto di ricerca socioeconomica con sede a Roma, ha stimato che da settembre il numero di giovani laureati italiani che cercano lavoro in altri paesi europei e negli Stati Uniti è aumentato del 300% rispetto all’anno precedente. A riguardo, il sociologo Francesco Simoncelli ha commentato:

“Certamente gli studiosi devono pensare su scala internazionale, ma quello che sta succedendo in Italia a causa dei tagli imposti dalla nuova legge non è null’altro che un esodo di ricercatori verso l’estero. Potrei citare decine di casi di giovani scienziati, che avevano già i contratti di insegnamento e di ricerca in tasca ma che si trovano ora disoccupati. Stanno cercando di trasferirsi all’estero. L’italia intera ci rimette. E’ all’estero che beneficeranno del valore di questi giovani”.

[Articolo originale di Thomas Migge]

lunedì 13 ottobre 2008

Università, precari e studenti insieme contro il governo


ROMA - Il mondo delle università e della ricerca continua ad affilare le armi contro le politiche del governo in materia di istruzione. Oggi la protesta passa per Roma e Milano, ma in tutta Italia proliferano le iniziative che vedono studenti e precari insieme, contro i provvedimenti dell'esecutivo. Nel mirino delle proteste la cosiddetta "controriforma Gelmini", ovvero la legge 133 approvata il 6 agosto scorso - ex decreto Brunetta - e le sue norme sull'università: possibilità di trasformare gli atenei in fondazioni di diritto privato, tagli al fondo di finanziamento ordinario (un miliardo e mezzo di euro in 5 anni) e blocco del turn-over al 20 per cento (modulo 5 a 1: per cinque docenti in pensione ne entra solo uno). Stamane nella capitale, un corteo di "almeno un migliaio di studenti", dicono gli organizzatori, ha sfilato tra i viali della Sapienza per protestare, in particolare, "contro la privatizzazione dell'università". La manifestazione è stata avviata dai collettivi della facoltà di scienze (matematica, fisica, scienze naturali). "Il corteo cresce di momento in momento - hanno spiegato i collettivi -, stiamo entrando in tutti i dipartimenti della facoltà di scienze per bloccare le lezioni, poi faremo una grande assemblea sotto la statua della Minerva". A Milano una settantina di studenti ha occupato il rettorato della Statale. Fanno parte dei collettivi delle facoltà di Scienze politiche, Mediazione culturale, Accademia di Brera. Sono studenti della Statale, del Politecnico e della Bicocca. Un gruppo di manifestanti ha incontrato il rettore Enrico Decleva.
Gli studenti chiedono, in caso la legge 133 non venga abrogata, le dimissioni del rettore e del senato accademico, l'annullamento dell'inaugurazione dell'anno accademico a novembre, un pronunciamento chiaro sulla legge, la garanzia che non saranno aumentate le tasse universitarie né diminuiti i servizi. "Chiediamo anche che il senato accademico si esprima per il blocco immediato della didattica - dice Marco, uno degli occupanti - per dare a tutti gli studenti la possibilità di mobilitarsi". (13 ottobre 2008), da Repubblica.it

leggi anche:
"Sms e mail a Napolitano: non firmare la Gelmini" - da l'Unità

domenica 12 ottobre 2008

La vergogna e il Bagaglino

Quando stamattina ho letto su internet della morte di Haider ho provato un sentimento di cui mi sono vergognato. Anche ora mi imbarazza definirlo. Forse la parola adatta non esiste. Non è «soddisfazione», ma onestamente le somiglia. Non è stata la prima volta. Ero un ragazzo quando morì Franco. Rafael Alberti disse qualcosa come: «Le fiamme dell'inferno non sono sufficienti per accoglierlo». Mi piacque. Quella frase mi tornò in mente quando morì Pinochet. Mi è tornata in mente oggi, dopo Haider. Poi mi sono vergognato. Forse perché Haider aveva la mia età e questo mi ha fatto avvertire che non era solo un simbolo, era un uomo. Ho guardato le sue foto. Ho letto che lo paragonano a Bossi. Ho pensato ai loro vestiti tirolesi, alle camicie nere di Berlusconi al Bagaglino, ai simboli neofascisti esibiti da chi ci governa. Ho provato pena per Haider, alla fine, poi anche per me.

Giovanni Pera

È una bella lettera, la leggo e la rileggo. Bella perché parla di vergogna senza vergogna e di pena senza pudore. Perché entra con semplicità in un terreno complesso: l’ambiguità dei propri sentimenti e nei sentimenti, è chiaro, alberga anche la politica. Non ci si rallegra per la morte di nessuno: mai. Di un tiranno a lungo subìto, questo sì può accadere: «Beviamo a viva forza, è morto Mirsilo», scriveva Alceo. Però Haider non era un tiranno e neppure un dittatore, non era Franco né Pinochet. Era un leader politico della destra estrema, la destra vincente fatta di simboli odiosi e a questo può ridurre l’esasperazione e la frustrazione di chi si trova, davanti all’onda, in minoranza: a confondere la battaglia politica con l’odio personale. È un errore gravissimo che nasce dalla cultura sommaria dominante, rafforza questa cultura anziché combatterla: buoni contro cattivi, indiani contro cow boy e chi vince non fa prigionieri. Non è questo il terreno di scontro: non è la vita o la morte dell’avversario. È il prevalere delle idee e dei valori di cui ciascuno è portatore, è la mia opinione contro la tua e la forza delle ragioni che la sostengono, il comune sentire da cui germinano.

Questo il vero campo di battaglia: lo spirito del tempo e gli elementi che lo costruiscono, lo consolidano. Il problema non è che Berlusconi la sera vada al Bagaglino, nel fine settimana da Messeguè, la notte in discoteca vestito in «total black». Le donne se sono mogli di qualcun altro, dice la sua barzelletta, si pagano. È evidente che personalmente – finché è nel lecito - può vestire e passare il tempo come vuole. Il problema è il compiacimento e l’identificazione che suscita come «modello politico vincente». Il berlusconismo. L’idea che del fascismo non mi occupo perché ho da lavorare, che il Parlamento mi deprime. Che se hai i soldi puoi aggiustare i conti delle banche e delle città, puoi comprarti l’impunità e delle regole chi se ne frega, roba da moralisti tristi. È da qui che germinano i cori «duce duce» che ormai accompagnano la nostra nazionale di calcio all’estero, i caschi rosa con la svastica che le adolescenti comprano al mercato «perché vanno». Di questo sì c’è da vergognarsi: di non saperglielo spiegare. Meno male che si torna in piazza. Protestare va bene ma anche proporre, per favore. Indicare una rotta diversa, se possibile. Che non sia speriamo che muoia. Come per Haider, che non ci mancherà ma che se fosse invecchiato sconfitto a trastullarsi coi falconi in una baita sarebbe stato meglio. Per lui e per tutti.

di Concita de Gragorio
, da l'Unità.it

sabato 11 ottobre 2008

giovedì 9 ottobre 2008

Quel che resta dell'Università

di Aldo Giannulli, da l'Unità 09/10/08

Le notizie sono da bollettino di guerra: il Rettore della Statale di Milano dice che, a seguito dei tagli, non sa se già dal 2010 sarà costretto a bloccare il pagamento degli stipendi, quello di Siena dichiara che non sa come fare già dal 1° gennaio, e così via. Inoltre nel giro di sei anni andranno in pensione circa il 50% degli attuali ordinari ed associati; questa legge finanziaria prevede che, sino al 2012, solo un quinto di essi possano essere sostituiti con nuovi concorsi e, dal 2013 uno su due. Ovviamente, si apriranno vuoti paurosi nella didattica che saranno colmati o con il lavoro gratuito dei ricercatori (magari promossi “professori aggregati”, con lo stesso stipendio di oggi, per obbligarli a farlo a costo zero) o con contratti a tempo. Forse siamo maligni (d’altra parte, “qualcuno” ci ha insegnato che “a pensar male si fa peccato, però si indovina”) ma ci viene il dubbio che questa cura da cavallo abbia poco a che fare con reali esigenze di bilancio e punti invece ad una rapida e generalizzata privatizzazione dell’Università.

Già la manovra finanziaria di luglio ha fatto balenare l’ipotesi che le università possano trasformarsi in fondazioni di diritto privato, con una semplice delibera del senato accademico. Allora facciamo una ipotesi: le università, una dopo l’altra, si trovano in condizioni di non poter far fronte alle spese e decidono per questo di trasformarsi in fondazioni, per acquisire soci privati, con due esiti: alcune li trovano e, in breve, diventano appendici di qualche gruppo finanziario, altre non li trovano e, semplicemente, falliscono (come ogni impresa privata) ed i loro beni vanno all’incanto, acquistati per due soldi, da gruppi finanziari che ci fanno la loro università. Ovviamente, università privatizzate non avrebbero alcun interesse a bandire concorsi, ma procederebbero con contratti da precari, e non avrebbero alcun interessa a mantenere facoltà “improduttive”: ci sarà un futuro per Lettere, Scienze Naturali, Scienze della Comunicazione? E al posto di Lingue non basterà una scuola per traduttori e interpreti?

Qui non si tratta di qualche taglio alla spesa pubblica, ma del tentativo di cambiare natura al sistema universitario italiano con un colpo di mano. Beninteso, l’attuale ordinamento è indifendibile: l’offerta didattica fa pietà, i profili professionali sono assolutamente fuori mercato, la selezione del corpo docente è clientelare e scandalosa, la ricerca sopravvive in poche isole. Ma non sarebbe una gran soluzione quella di passare dalla padella baronale alla brace padronale. Occorre pensare ad una forma radicalmente nuova di università alternativa tanto a quella esistente quanto a quella che ci propongono Tremonti e la Gelmini. Possiamo provare a discuterne?

leggi anche:
"A cento passi dal Municipio" - di Gianni Barbacetto

domenica 5 ottobre 2008

Abiura di una cristiana laica

di Roberta de Monticelli

Questo è un addio. A molti cari amici - in quanto cattolici. Non in quanto amici, e del resto sarebbe un fatto privato. E' un addio a qualunque collaborazione che abbia una diretta o indiretta relazione alla chiesa cattolica italiana, un addio anche accorato a tutti i religiosi cui debbo gratitudine profonda per avermi fatto conoscere uno dei fondamenti della vita spirituale, e la bellezza. La bellezza delle loro anime e quella dei loro monasteri - la più bella, la più ricca, e oggi, purtroppo, la più deserta eredità del cattolicesimo italiano. O diciamo meglio del nostro cristianesimo. L'eredità di Benedetto, di Pier Damiani, di Francesco, dei sette nobili padri cortesi che fondarono la comunità dei Servi di Maria, di tanti altri uomini e donne che furono "contenti nei pensier contemplativi". E anche l'eredità di mistici di altre lingue e radici, l'eredità, tanto preziosa ai filosofi, di una Edith Stein, carmelitana che si scalzò sulle tracce della grande Teresa d'Avila.

Questo addio interessa a ben poche persone, e come tale non meriterebbe di esser detto in pubblico. Ma se oggi scrivo queste parole non è certo perché io creda che il gesto o la sua autrice abbiano la minima importanza reale o morale: bensì per un senso del dovere ormai doloroso e bruciante. Basta. La dichiarazione, riportata oggi su "Repubblica", di Mons. Betori, segretario uscente della Cei, e "con il pieno consenso del presidente Bagnasco", secondo la quale, per quanto riguarda la fine della propria vita, alla volontà del malato va prestata attenzione, ma "la decisione non deve spettare alla persona", è davvero di quelle che non possono più essere né ignorate né, purtroppo, intese diversamente da quello che nella loro cruda chiarezza dicono.

E allora ecco: questa dichiarazione è la più tremenda, la più diabolica negazione di esistenza della possibilità stessa di ogni morale: la coscienza, e la sua libertà. La sua libertà: di credere e di non credere (e che valore mai potrebbe avere una fede se uno non fosse libero di accoglierla o no?), di dare la propria vita, o non darla, di accettare lo strazio, l'umiliazione del non esser più che cosa in mano altrui, o di volerne essere risparmiato. Sì, anche di affermare con fierezza la propria dignità, anche per quando non si potrà più farlo. E' la possibilità di questa scelta che carica di valore la scelta contraria, quella dell'umiltà e dell'abbandono in altre mani. Ma siamo più chiari: quella che Betori nega è la libertà ultima di essere una persona, perché una persona, sant'Agostino ci insegna, è responsabile ultima della propria morte, come lo è della propria vita. Fallibile, e moralmente fallibile, è certo ogni uomo. Ma vogliamo negare che, anche con questo rischio, ultimo giudice in materia di coscienza morale sia la coscienza morale stessa? Attenzione: non stiamo parlando di diritto, stiamo parlando di morale. Il diritto infatti è fatto non per sostituirsi alla coscienza morale della persona, ma per permettergli di esercitarla nei limiti in cui questo esercizio non è lesivo di altri. Su questo si basano ad esempio i principi costituzionali che garantiscono la libertà religiosa, politica, di opinione e di espressione.

Oppure ci sono questioni morali che non sono "di competenza" della coscienza di ciascuna persona? Quale autorità ultima è dunque "più ultima" di quella della coscienza? Quella dei medici? Quella di mons. Betori? Quella del papa? E su cosa si fonda ogni autorità, se non sulla sua coscienza? Possiamo forse tornare indietro rispetto alla nostra maggiore età morale, cioè al principio che non riconosce a nessuna istituzione come tale un'autorità morale sopra la propria coscienza e i propri più vagliati sentimenti? C'è ancora qualcuno che ancora pretenda sia degna del nome di morale una scelta fondata sull'autorità e non nell'intimità della propria coscienza? "Non siamo per il principio di autodeterminazione", dichiara mons. Betori, e lo dichiara a nome della chiesa italiana. Ma si rende conto, Monsignore, di quello che dice? Amici, ve ne rendete conto? E' possibile essere complici di questo nichilismo? Questa complicità sarebbe ormai - lo dico con dolore - infamia.
da Micromega
(4 ottobre 2008)

leggi anche:
"Religione a chilometro, al peggio non c'è fine" - di Don Paolo Farinella
La rabbia di un giornalista "Ecco come disinforma il mio Tg" - di Giuseppe Giulietti





sabato 4 ottobre 2008

Intervista a Moni Ovadia 2


Secondo estratto dell'intervista a Moni Ovadia realizzato dai ragazzi di "Qui Milano Libera".
Tratto dal sito di Piero Ricca

Pd di Letta e di governo

"Sono di sinistra, ma Berlusconi è il migliore". L'ha detto a 'L'espresso' Riccardo Scamarcio, ma è il motto di un'epoca. Questa. Veltroni invece preferisce Gianni Letta, "un uomo che ha il mio stesso senso delle istituzioni". Definizione quantomeno azzardata, se si pensa che questo Cavour redivivo, negli anni Ottanta quando dirigeva 'Il Tempo', fu coinvolto nei fondi neri Iri e nel '93, vicepresidente Fininvest, rischiò l'arresto per presunti maneggi sulla legge Mammì. Ma il vero mistero è perché mai Uòlter abbia messo il cappello sulla Cai, la cordata alitaliota dei Colaninno Boys.

Dopo averne detto tutto il peggio possibile, è andato a 'Porta a Porta' a rivendicare il successo dei 16 Fratelli Bandiera. Rivelando di aver fatto incontrare Colaninno ed Epifani "per favorire un'intesa che impedisse la catastrofe" e "far fare un passo avanti a Cai". Se è vero, non si comprende perché Veltroni non si sia schierato subito con Cai, cioè col governo. Se è falso, non si vede perché il capo dell'opposizione abbia levato le castagne dal fuoco al governo che, incartato nella guerra ai lavoratori Alitalia, era a un passo dalla prima disfatta.

"Senso di responsabilità", spiega Uòlter, ma così dà implicitamente ragione al governo sulla mancanza di alternative alla Cai (che invece di alternative ne aveva, se si fosse messa sul mercato l'Alitalia senza debiti né esuberi, anziché regalarla in esclusiva alla Cai).

In entrambi i casi, prendersi il merito di uno sbocco sempre criticato disorienta vieppiù gli elettori del Pd. Conferma le accuse di Berlusconi alla Cgil, che avrebbe "remato contro" pilotata dal Pd. E delegittima Guglielmo Epifani, mettendo in ombra i vantaggi strappati in extremis dalla Cgil per
i lavoratori rispetto al pessimo accordo siglato inizialmente da Cisl e Uil. Non contento, Veltroni dichiara al 'Corriere' che con questo governo rischiamo una svolta autoritaria, poi però rivela i dettagli dell'imbarazzante mediazione: Colaninno (padre) ed Epifani "si sono seduti qui in casa mia su quei due divani là in fondo e han trovato l'accordo". In gran segreto, fuorché per Letta e per i segretari di Cisl e Uil. Intanto Colaninno figlio, Matteo, ministro-ombra del Pd, taceva. E Letta nipote, Enrico, metteva alle strette Epifani definendo "l'errore del secolo" il no alla Cai.

È proprio sicuro Veltroni, noto giramondo, che una simile scena potrebbe mai accadere in una democrazia normale? Se l'immagina Obama che convoca nel suo salotto un affarista e un sindacalista per propiziare la svendita di un'azienda di Stato decisa da Bush a spese dei contribuenti? Certo che no, infatti Uòlter poco sotto dichiara: "Ho un giudizio pessimo di come il governo ha gestito la vicenda Alitalia, compresa la scelta di una cordata non si sa in base a quali principi. che ha scaricato i debiti sui contribuenti". Già. Ma in quel pessimo governo c'è pure l'ottimo Gianni Letta. E la pessima cordata, a sentire Veltroni, l'ha salvata Veltroni. L'ottimo capo dell'opposizione.
(03 ottobre 2008) di M.Travaglio, da L'Espresso.it

leggi anche:
"Balla a Balla" di M.Travaglio
"Alitalia, Ryanair fa ricorso all' UE" da Repubblica
"Le bugie del ministro Gelmini" da Micromega
"Un salvaslip per l'Europa" da l'Unità
Se qualcuno sostiene "sono stato assoloto", sempre meglio controllare "come" - di Ines Tabusso

giovedì 2 ottobre 2008

Intervista a Moni Ovadia 1


Intervista Moni Ovadia. Nella lunga conversazione Moni parla dell’attacco alla democrazia costituzionale, di revisionismo, anticomunismo, nuovo razzismo, perdita della memoria, uso politico della paura.
Dal sito di Piero Ricca

mercoledì 1 ottobre 2008

Modello Itaia

"[La crisi finanziaria] aumenta le chance di Obama, ma in America c'è ancora tanto razzismo che potrebbe addirittura essere decisivo.
Per fortuna che dall'altra parte c'è un candidato come McCain, con una vice che è almost a joke, una barzelletta"
"
Sarah Palin?"
"Voi italiani sapete benissimo di cosa sto parlando. Non avete un parlamento pieno di soubrette?"
- Paul Samuelson, premio Nobel per l'economia, intervistato da Repubblica (30 settembre 2008)
 
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