Ora d'aria, M.Travaglio
l'Unità, 31 agosto 2008
Grazie alle intercettazioni giustamente pubblicate da Panorama, sappiamo come si comportava il premier Romano Prodi dinanzi a richieste di raccomandazione. Cioè all'opposto di Berlusconi. Quando il consuocero, primario a Bologna, chiese fondi pubblici per una struttura pubblica di ricerca biomedica, Prodi girò la pratica al ministro competente Mussi, che liberamente decise di no. Idem quando un amico industriale farmaceutico chiese agevolazioni fiscali per una fondazione scientifica: la pratica passò al Tesoro che, avendo già deliberato per il 2007, suggerì di rifarsi vivo nel 2008 (nulla di fatto anche in quel caso). Quando invece un nipote chiedeva consigli privati per una società privata, Prodi privatamente glieli dava. Grazie, poi, alle dichiarazioni di Prodi, abbiamo almeno un politico (purtroppo in pensione) che non ha nulla da nascondere e dunque chiede di pubblicare tutte le sue telefonate intercettate. E rifiuta la solidarietà pelosa di chi, a destra e a sinistra, vorrebbe il silenzio stampa per legge: così si saprà che esistono intercettazioni su Tizio o Caio, ma queste resteranno nel cassetto, così Tizio o Caio rimarranno sospettati a vita anche se non han fatto nulla di male.
Anche stavolta, come ciclicamente accade da qualche anno, cioè da quando le intercettazioni hanno svelato ai magistrati (e ai cittadini italiani) gravissimi scandali, s’è messa in moto la compagnia di giro di politici e commentatori specializzati nell’invocare “una legge sulle intercettazioni”: guinzaglio ai giudici e bavaglio ai cronisti. Solo che stavolta lorsignori non si sono accorti di un particolare non da poco: quelli pubblicati da Panorama non sono atti pubblici, cioè già depositati a indagati e avvocati, dunque raccontabili dalla stampa. Sono atti ancora coperti da segreto, custoditi - come scrive un po’ comicamente Panorama - in una cassaforte della Procura di Roma, cui li ha trasmessi per competenza quella di Bolzano che indaga su tutt’altro (Siemens-Italtel). Dunque chi li ha passati a Panorama - Guardia di Finanza, o magistrati o personale di Procura - ha commesso un reato: art. 326, rivelazione e utilizzazione di segreti di ufficio da parte del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio. Il quale è punito col carcere da 6 mesi a 3 anni, insieme al giornalista che concorre nel suo reato (questi però è tenuto al segreto professionale e non rivela la fonte, difficilissima da individuare). Dunque è già vietato dalla legge vigente divulgare notizie segrete e non c’è bisogno di farne un’altra per vietarlo di nuovo. Si dirà: ma le notizie segrete continuano a uscire. Vero: il mondo è pure pieno di rapinatori, stupratori, spacciatori, scippatori, omicidi che continuano a delinquere anche se è già vietato rapinare, stuprare, spacciare, scippare, ammazzare. Ma a nessuno salterebbe in mente di fare ogni volta una nuova legge che proibisca comportamenti già proibiti.
Resta da capire, allora, di che vadano cianciando Sergio Romano sul Corriere e il consueto stuolo di politici bipartisan che anche ieri hanno invocato una nuova legge: il ddl Berlusconi-Alfano varato in giugno dal governo (fino a 5 anni di galera per i giudici che dispongano intercettazioni per reati puniti fino a 10 anni; fino a 3 anni di galera per i cronisti che le raccontino), o qualcosa di simile. Quella legge infatti, che per i giornalisti riprende peggiorandola la Mastella votata un anno fa da tutta la Camera (447 sì e 9 astenuti), non vieta di pubblicare atti segreti (è già vietato). Vieta di pubblicare atti pubblici: cioè verbali, avvisi di garanzia, ordini di cattura, decreti di perquisizione anche contenenti intercettazioni, già depositati alle parti, dunque non più segreti, dunque raccontabili. Atti che non c’entrano con le telefonate di Prodi, ancora segrete, come lo era la famosa conversazione Fassino-Consorte sul caso Unipol, anche allora in mano alla Guardia di Finanza e pubblicata dallo stesso cronista Nuzzi sul Giornale allora diretto dallo stesso Belpietro.
La nuova legge guinzaglio-bavaglio non servirà a impedire l’uscita di atti segreti (già vietata e punita col carcere), ma di atti pubblici. Come quelli che hanno consentito ai cittadini di essere doverosamente e tempestivamente informati sui casi Telecom, Calciopoli, Bancopoli, Sismi, Cuffaro, Del Turco e persino sui delitti nella clinica Santa Rita. Con la legge che Berlusconi da destra, l’avvocato Calvi da sinistra e Romano sul Corriere invocano a gran voce, non sapremmo ancora nulla di nulla, visto che (Cuffaro a parte) i processi non sono ancora iniziati. E i vari Moggi, Fazio, Fiorani, Consorte, Gnutti, Pollari, Pompa sarebbero ancora tutti ai posti di combattimento, liberi di continuare indisturbati, come prima e più di prima. Per la serie: al cittadino non far sapere quanti scandali nasconde il potere.
leggi anche:
"Intercetazioni, il brutto show continua" - di Daniele Martinelli
"L'irrinunciabile separazione dei poteri" - di Felice Lima
"Album di famiglia" - di C. De Gregorio
domenica 31 agosto 2008
venerdì 29 agosto 2008
La guerra nel mare
di Maria Novella Oppo
L’abitudine uccide l'amore e fa nascere l'indifferenza più efferata verso le tragedie che si ripetono ogni giorno. Come gli sbarchi degli immigrati, nel migliore dei casi salvati dalle acque e chiusi nei cosiddetti centri di accoglienza. Nel peggiore dei casi, vediamo i loro corpi riversi sulla spiaggia o non vediamo proprio niente perché sono spariti in mare. Ieri il Tg3 ci ha fatto sapere che, secondo calcoli approssimati, sarebbero 12.000 gli annegati nel tratto di mare tra Africa e Italia. Una guerra orrenda che fa vittime da una parte sola: quelli che sono disposti a tutto per approdare alle nostre amate sponde e venire a farsi offendere da figuri come Borghezio e Calderoli in base ai principi razzisti della Bossi Fini. A proposito di Fini: altre spiagge e altro mare. Il presidente della Camera ha fatto sapere che (bontà sua) pagherà la multa per aver violato le acque di un'area protetta, su una pilotina dei vigili del fuoco. D'altra parte, se non facesse ogni tanto una stronzata, di lui e di An resterebbero solo le sciagurate sparate di Gasparri.
leggi anche
"Padre Pio, la fabbrica dei miracoli (ad orologeria)", da l'Unità.it
"Fini a Giannutri, la frregatura Alitalia e la controriforma della giustizia" di P. Pardi
"La controriforma del governo per sottomettere la giustizia alla politica" di P. Pardi
La cassazione dà torto ai Mastella
di Uguale per Tutti
Il paradosso di questi tempi è che tutti danno addosso alla magistratura non per le cose di cui dovrebbe vergognarsi (per esempio la condanna di Luigi De Magistris e il trasferimento di Clementina Forleo), ma per ciò per cui dovrebbe ricevere medaglie al valore.
Dunque, invece di dare una promozione sul campo ai magistrati che hanno portato in carcere il Presidente della Regione Abruzzo, per avere posto così fine a quello che, a tutt’oggi e salvo quanto potrà emergere in futuro, appare un vergognoso sistema di corruzione in danno delle finanze pubbliche e della salute dei cittadini, si sostiene che quell’arresto è la prova che bisogna riformare la giustizia.
Si confessa, in sostanza, che l’obiettivo della riforma è impedire alla giustizia di fare giustizia. Impedirglielo – e qui è il paradosso – ancora di più di quanto già non si sia fatto con decenni di riforme tutte sistematicamente contro la giustizia.
Così, è accaduto solo pochi mesi fa – nel gennaio di quest’anno: a questo link uno scritto di Felice Lima su quelle vicende – che tre quarti del Parlamento ha applaudito un Ministro della Giustizia inquisito e marito di una inquisita, che, fingendo di farlo per motivi istituzionali, faceva cadere un Governo per un calcolo politico consistente nel credere di sapere che ciò lo avrebbe messo in condizioni di ottenere un vantaggio politico alle elezioni conseguenti.
In occasione di quella vergognosa gazzarra che ha disonorato il Parlamento e chi lo occupa, si è sostenuto – con la grancassa dei giornalisti al soldo del potere – che la signora Lonardo/Mastella era vittima di una scorrettezza dei magistrati.
Ci si è detti – come per Del Turco e come sempre – sicuri (non si sa sulla base di che e contro le evidenze documentali) che si era di fronte a una persecuzione giudiziaria.
Si sono linciati sui giornali tutti i magistrati che avevano fatto semplicemente il loro dovere.
Si sono minacciate richieste milionarie di risarcimento danni.
Il Mastella si è chiesto accorato “Quando arriverà la sentenza di proscioglimento chi mi ripagherà del sogno di essere ministro della Repubblica?” (Reuters) (come se fare il Ministro non fosse un servizio, ma, appunto, un sogno).
Come accaduto mille altre volte, anche in questo caso i fatti sono contro questa classe dirigente nemica della giustizia e amica di ogni genere di pregiudicato.
Così la Corte Suprema di Cassazione, con una sentenza depositata l’altro ieri – la n. 33843 del 2008 – ha detto che la custodia cautelare in carcere della Lonardo/Mastella era del tutto legittima e doverosa e che alla signora che tanto ci ha afflitti con le sue manfrine (invece che chiedere scusa e vergognarsi in silenzio) non risarciremo un bel nulla.
Purtroppo, piuttosto, non avremo da lei il risarcimento che ci dovrebbe.
La notizia di questa importante pronuncia della Cassazione è stata data, ovviamente, dai giornalai del potere (cioè la sostanziale totalità della stampa in giro per le edicole) a bassissima voce.
Riportiamo qui sotto l’articolo con il quale La Repubblica ha dato la notizia, con poche righe ben nascoste in DODICESIMA pagina, metà delle quali (titolo compreso) dedicate alle assurde tesi dell’indagata.
E pubblichiamo – a questo link – il testo integrale della sentenza della Cassazione, per chi volesse farsi un’idea adeguata di come e perché pretendere che il Direttore Generale di una ASL fatto nominare dal Partito nomini a sua volta due primari (di neurochirurgia e di cardiologia) indicati dal Partito non sia “fare politica”, ma sia “crimine” (nello specifico, concussione). E ciò senza dire di come sia ridotto un Paese nel quale i ferri in neurochirurgia e cardiologia non li diamo a chi li sa usare, ma a chi è amico dei Mastella.
da toghe.blogspot.com
Il paradosso di questi tempi è che tutti danno addosso alla magistratura non per le cose di cui dovrebbe vergognarsi (per esempio la condanna di Luigi De Magistris e il trasferimento di Clementina Forleo), ma per ciò per cui dovrebbe ricevere medaglie al valore.
Dunque, invece di dare una promozione sul campo ai magistrati che hanno portato in carcere il Presidente della Regione Abruzzo, per avere posto così fine a quello che, a tutt’oggi e salvo quanto potrà emergere in futuro, appare un vergognoso sistema di corruzione in danno delle finanze pubbliche e della salute dei cittadini, si sostiene che quell’arresto è la prova che bisogna riformare la giustizia.
Si confessa, in sostanza, che l’obiettivo della riforma è impedire alla giustizia di fare giustizia. Impedirglielo – e qui è il paradosso – ancora di più di quanto già non si sia fatto con decenni di riforme tutte sistematicamente contro la giustizia.
Così, è accaduto solo pochi mesi fa – nel gennaio di quest’anno: a questo link uno scritto di Felice Lima su quelle vicende – che tre quarti del Parlamento ha applaudito un Ministro della Giustizia inquisito e marito di una inquisita, che, fingendo di farlo per motivi istituzionali, faceva cadere un Governo per un calcolo politico consistente nel credere di sapere che ciò lo avrebbe messo in condizioni di ottenere un vantaggio politico alle elezioni conseguenti.
In occasione di quella vergognosa gazzarra che ha disonorato il Parlamento e chi lo occupa, si è sostenuto – con la grancassa dei giornalisti al soldo del potere – che la signora Lonardo/Mastella era vittima di una scorrettezza dei magistrati.
Ci si è detti – come per Del Turco e come sempre – sicuri (non si sa sulla base di che e contro le evidenze documentali) che si era di fronte a una persecuzione giudiziaria.
Si sono linciati sui giornali tutti i magistrati che avevano fatto semplicemente il loro dovere.
Si sono minacciate richieste milionarie di risarcimento danni.
Il Mastella si è chiesto accorato “Quando arriverà la sentenza di proscioglimento chi mi ripagherà del sogno di essere ministro della Repubblica?” (Reuters) (come se fare il Ministro non fosse un servizio, ma, appunto, un sogno).
Come accaduto mille altre volte, anche in questo caso i fatti sono contro questa classe dirigente nemica della giustizia e amica di ogni genere di pregiudicato.
Così la Corte Suprema di Cassazione, con una sentenza depositata l’altro ieri – la n. 33843 del 2008 – ha detto che la custodia cautelare in carcere della Lonardo/Mastella era del tutto legittima e doverosa e che alla signora che tanto ci ha afflitti con le sue manfrine (invece che chiedere scusa e vergognarsi in silenzio) non risarciremo un bel nulla.
Purtroppo, piuttosto, non avremo da lei il risarcimento che ci dovrebbe.
La notizia di questa importante pronuncia della Cassazione è stata data, ovviamente, dai giornalai del potere (cioè la sostanziale totalità della stampa in giro per le edicole) a bassissima voce.
Riportiamo qui sotto l’articolo con il quale La Repubblica ha dato la notizia, con poche righe ben nascoste in DODICESIMA pagina, metà delle quali (titolo compreso) dedicate alle assurde tesi dell’indagata.
E pubblichiamo – a questo link – il testo integrale della sentenza della Cassazione, per chi volesse farsi un’idea adeguata di come e perché pretendere che il Direttore Generale di una ASL fatto nominare dal Partito nomini a sua volta due primari (di neurochirurgia e di cardiologia) indicati dal Partito non sia “fare politica”, ma sia “crimine” (nello specifico, concussione). E ciò senza dire di come sia ridotto un Paese nel quale i ferri in neurochirurgia e cardiologia non li diamo a chi li sa usare, ma a chi è amico dei Mastella.
da toghe.blogspot.com
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martedì 26 agosto 2008
Il nostro posto
di Concita De Gregorio
Sono cresciuta in un Paese fantastico di cui mi hanno insegnato ad essere fiera. Sono stata bambina in un tempo in cui alzarsi a cedere il posto in autobus a una persona anziana, ascoltare prima di parlare, chiedere scusa, permesso, dire ho sbagliato erano principi normali e condivisi di una educazione comune. Sono stata ragazza su banchi di scuola di città di provincia dove gli insegnanti ci invitavano a casa loro, il pomeriggio, a rileggere ad alta voce i testi dei nostri padri per capirne meglio e più piano la lezione. Sono andata all’estero a studiare ancora, ho visto gli occhi sbigottiti di coloro a cui dicevo che se hai bisogno di ingessare una frattura, nei nostri ospedali, che tu sia il Rettore dell’Università o il bidello della Facoltà fa lo stesso, la cura è dovuta e l’assistenza identica per tutti. Sono stata una giovane donna che ha avuto accesso al lavoro in virtù di quel che aveva imparato a fare e di quel che poteva dare: mai, nemmeno per un istante, ho pensato che a parità di condizioni la sorte sarebbe stata diversa se fossi stata uomo, fervente cattolica, ebrea o musulmana, nata a Bisceglie o a Brescia, se mi fossi sposata in chiesa o no, se avessi deciso di vivere con un uomo con una donna o con nessuno.
Ho saputo senza ombra di dubbio che essere di destra o di sinistra sono cose profondamente diverse, radicalmente diverse: per troppe ragioni da elencare qui ma per una fondamentale, quella che la nostra Costituzione – una Costituzione antifascista - spiega all’articolo 2, proprio all’inizio: l’esistenza (e il rispetto, e il valore, e l’amore) del prossimo. Il “dovere inderogabile di solidarietà” che non è concessione né compassione: è il fondamento della convivenza. Non erano mille anni fa, erano pochi. I miei genitori sapevano che il mio futuro sarebbe stato migliore del loro. Hanno investito su questo – investito in educazione e in conoscenza – ed è stato così. È stato facile, relativamente facile. È stato giusto. Per i nostri figli il futuro sarà peggiore del nostro. Lo è. Precario, più povero, opaco.
Chi può li manda altrove, li finanzia per l’espatrio, insegna loro a “farsi furbi”. Chi non può soccombe. È un disastro collettivo, la più grande tragedia: stiamo perdendo la fiducia, la voglia di combattere, la speranza. Qualcosa di terribile è accaduto negli ultimi vent’anni. Un modello culturale, etico, morale si è corrotto. La politica non è che lo specchio di un mutamento antropologico, i modelli oggi vincenti ne sono stati il volano: ci hanno mostrato che se violi la legge basta avere i soldi per pagare, se hai belle le gambe puoi sposare un miliardario e fare shopping con la sua carta di credito. Spingi, salta la fila, corrompi, cambia opinione secondo la convenienza, mettiti al soldo di chi ti darà una paghetta magari nella forma di una bella presidenza di ente pubblico, di un ministero. Mettiti in salvo tu da solo e per te: gli altri si arrangino, se ne vadano, tornino a casa loro, crepino.
Ciò che si è insinuato nelle coscienze, nel profondo del Paese, nel comune sentire è un problema più profondo della rappresentanza politica che ha trovato. Quello che ora chiamiamo “berlusconismo” ne è stato il concime e ne è il frutto. Un uomo con un potere immenso che ha promosso e salvato se stesso dalle conseguenze che qualunque altro comune cittadino avrebbe patito nelle medesime condizioni - lo ha fatto col denaro, con le tv che piegano il consenso - e che ha intanto negli anni forgiato e avvilito il comune sentire all’accettazione di questa vergogna come fosse “normale”, anzi auspicabile: un modello vincente. È un tempo cupo quello in cui otto bambine su dieci, in quinta elementare, sperano di fare le veline così poi da grandi trovano un ricco che le sposi. È un tempo triste quello in cui chi è andato solo pochi mesi fa a votare alle primarie del Partito Democratico ha già rinunciato alla speranza, sepolta da incomprensibili diaspore e rancori privati di uomini pubblici.
Non è irrimediabile, però. È venuto il momento di restituire ciò che ci è stato dato. Prima di tutto la mia generazione, che è stata l’ultima di un tempo che aveva un futuro e la prima di quello che non ne ha più. Torniamo a casa, torniamo a scuola, torniamo in battaglia: coltivare i pomodori dietro casa non è una buona idea, metterci la musica in cuffia è un esilio in patria. Lamentarsi che “tanto, ormai” è un inganno e un rifugio, una resa che pagheranno i bambini di dieci anni, regalargli per Natale la playstation non è l’alternativa a una speranza. “Istruitevi perché abbiamo bisogno di tutta la vostra intelligenza”, diceva l’uomo che ha fondato questo giornale. Leggete, pensate, imparate, capite e la vita sarà vostra. Nelle vostre mani il destino. Sarete voi la giustizia. Ricominciamo da qui. Prendiamo in mano il testimone dei padri e portiamolo, navigando nella complessità di questo tempo, nelle mani dei figli. Nulla avrà senso se non potremo dirci di averci provato [...]. da l'Unità.it 26/08/08
domenica 24 agosto 2008
L'allievo ripetente
Ora d'aria, M.Travaglio
l'Unità, 23 agosto 2008
Questa sì che è una notizia: il nostro premier è un allievo di Giovanni Falcone ed è ansioso di “mettere in pratica molte sue idee in materia di giustizia”. Dev’essere per questo che si tenne in casa per due anni un mafioso travestito da stalliere, Vittorio Mangano, poi fatto arrestare e condannare da Falcone a 11 anni per mafia e traffico di droga. Dev’essere per questo che da 30 anni va a braccetto con Marcello Dell’Utri, condannato a 9 anni per mafia dal Tribunale presieduto da Leonardo Guarnotta, già membro del pool antimafia con Falcone e Borsellino. Dev’essere per questo che, quattro mesi fa, definì “eroe” Mangano, l’uomo che, scarcerato nel 1991, era divenuto reggente del mandamento di Porta Nuova e come tale aveva preso parte alla decisione della Cupola di Cosa Nostra di uccidere Falcone e Borsellino, e che poi fu riarrestato per tre omicidi per cui fu condannato due volte all’ergastolo in primo grado, dopodichè morì nel 2000. Dev’essere per questo che, nel 2003, dichiarò che i magistrati sono“matti, antropologicamente diversi dal resto della razza umana”, perché “per fare quel mestiere devi avere delle turbe psichiche”, parole che fecero insorgere Maria Falcone e Rita Borsellino, poi costrette a querelare Schifani per averle insultate. Dev’essere per questo che il centrodestra ha riportato in Cassazione, con una legge ad hoc, il già pensionato Corrado Carnevale, nemico acerrimo di Falcone e grande annullatore di condanne di mafiosi: il giudice “ammazzasentenze” che, in varie telefonate intercettate nel 1993-’94 (dopo Capaci e via d’Amelio), definiva spregiativamente “i dioscuri” Falcone e Borsellino, li dipingeva come due incapaci con “un livello di professionalità prossimo allo zero”, chiamava Falcone “quel cretino” e “faccia da caciocavallo”, aggiungeva “Io i morti li rispetto, ma certi morti no”, “a me Falcone... non m’è mai piaciuto”, poi insinuava addirittura che Falcone facesse inserire in Corte d’appello la moglie Francesca Morvillo per pilotare i processi e “fregare qualche mafioso”. Dev’essere per questo che ancora un mese fa i berluscones annidati nel Csm hanno votato per la nomina di un altro nemico giurato di Falcone, Alberto Di Pisa, a procuratore capo di Marsala contro il candidato designato dalla commissione, Alfredo Morvillo, cognato di Falcone.
Anziché rammentare allo Smemorato di Cologno questi semplici dati di fatto, politici e commentatori di chiara fama e fame si son subito avventurati nell’esegesi del pensiero di Falcone sulla separazione delle carriere e l’obbligatorietà dell’azione penale. Senz’accorgersi (o accorgendosi benissimo) che, scendendo sul suo terreno truffaldino, la danno vinta al premier. Come hanno giustamente osservato la sorella Maria e Peppino Di Lello, che col giudice lavorò fianco a fianco nel pool, Falcone non chiese mai la separazione delle carriere né la fine dell’azione penale obbligatoria. Si limitò, senza indicare soluzioni, a porre il problema di una distinzione delle funzioni tra pm e giudici (“comincia a farsi strada la consapevolezza che la carriera dei pm non può essere identica a quella del magistrati giudicante: investigatore l’uno, arbitro l’altro”), che fra l’altro oggi è già ipergarantita dalle ultime controriforme, e di una “visione feticistica della obbligatorietà dell’azione penale”. Ma era il 1988 e non c’era ancora al governo un premier plurimputato, pluriprescritto e plurimpunito grazie a leggi da lui stesso varate. E, soprattutto, Falcone pose quei problemi per tutelare meglio l’indipendenza di tutta la magistratura dalla politica e l’efficacia dei processi (negli Usa l’azione penale discrezionale consente persino di garantire l’immunità ai mafiosi pentiti in cambio della collaborazione).
Berlusconi pone gli stessi problemi, ma con tutt’altri scopi: non quelli di Falcone, ma quelli della P2, di cui era membro con tessera n.1816: mettere le procure e l’azione penale al guinzaglio del governo o comunque della politica. E poi c’è un fatto che taglia la testa al toro: fino al 1989 Falcone era giudice istruttore, carriera giudicante. Poi fece domanda al Csm e passò alla requirente, cioè divenne pm, procuratore aggiunto a Palermo. Stesso percorso fece Borsellino, prima giudice, poi procuratore a Marsala, infine aggiunto a Palermo. Con le carriere separate, non avrebbero mai potuto. Di che parla, dunque, questo presunto allievo di Falcone? Prenda qualche ripetizione, possibilmente non da Dell’Utri, poi si ripresenti all’esame.
Segnalazioni
Cosa disse davvero Falcone - (da antimafiaduemila.com)
Lettera a Giorgio Napolitano contro il Lodo Alfano - di Enzo di Frenna
Streamit.it - la televisione ad alta definizione su web senza concessioni televisive
Il "consistente, ma non trasparente, ampliamento degli utili della Firenze Parcheggi e dei suoi soci privati"* - di Marco Ottanelli
l'Unità, 23 agosto 2008
Questa sì che è una notizia: il nostro premier è un allievo di Giovanni Falcone ed è ansioso di “mettere in pratica molte sue idee in materia di giustizia”. Dev’essere per questo che si tenne in casa per due anni un mafioso travestito da stalliere, Vittorio Mangano, poi fatto arrestare e condannare da Falcone a 11 anni per mafia e traffico di droga. Dev’essere per questo che da 30 anni va a braccetto con Marcello Dell’Utri, condannato a 9 anni per mafia dal Tribunale presieduto da Leonardo Guarnotta, già membro del pool antimafia con Falcone e Borsellino. Dev’essere per questo che, quattro mesi fa, definì “eroe” Mangano, l’uomo che, scarcerato nel 1991, era divenuto reggente del mandamento di Porta Nuova e come tale aveva preso parte alla decisione della Cupola di Cosa Nostra di uccidere Falcone e Borsellino, e che poi fu riarrestato per tre omicidi per cui fu condannato due volte all’ergastolo in primo grado, dopodichè morì nel 2000. Dev’essere per questo che, nel 2003, dichiarò che i magistrati sono“matti, antropologicamente diversi dal resto della razza umana”, perché “per fare quel mestiere devi avere delle turbe psichiche”, parole che fecero insorgere Maria Falcone e Rita Borsellino, poi costrette a querelare Schifani per averle insultate. Dev’essere per questo che il centrodestra ha riportato in Cassazione, con una legge ad hoc, il già pensionato Corrado Carnevale, nemico acerrimo di Falcone e grande annullatore di condanne di mafiosi: il giudice “ammazzasentenze” che, in varie telefonate intercettate nel 1993-’94 (dopo Capaci e via d’Amelio), definiva spregiativamente “i dioscuri” Falcone e Borsellino, li dipingeva come due incapaci con “un livello di professionalità prossimo allo zero”, chiamava Falcone “quel cretino” e “faccia da caciocavallo”, aggiungeva “Io i morti li rispetto, ma certi morti no”, “a me Falcone... non m’è mai piaciuto”, poi insinuava addirittura che Falcone facesse inserire in Corte d’appello la moglie Francesca Morvillo per pilotare i processi e “fregare qualche mafioso”. Dev’essere per questo che ancora un mese fa i berluscones annidati nel Csm hanno votato per la nomina di un altro nemico giurato di Falcone, Alberto Di Pisa, a procuratore capo di Marsala contro il candidato designato dalla commissione, Alfredo Morvillo, cognato di Falcone.
Anziché rammentare allo Smemorato di Cologno questi semplici dati di fatto, politici e commentatori di chiara fama e fame si son subito avventurati nell’esegesi del pensiero di Falcone sulla separazione delle carriere e l’obbligatorietà dell’azione penale. Senz’accorgersi (o accorgendosi benissimo) che, scendendo sul suo terreno truffaldino, la danno vinta al premier. Come hanno giustamente osservato la sorella Maria e Peppino Di Lello, che col giudice lavorò fianco a fianco nel pool, Falcone non chiese mai la separazione delle carriere né la fine dell’azione penale obbligatoria. Si limitò, senza indicare soluzioni, a porre il problema di una distinzione delle funzioni tra pm e giudici (“comincia a farsi strada la consapevolezza che la carriera dei pm non può essere identica a quella del magistrati giudicante: investigatore l’uno, arbitro l’altro”), che fra l’altro oggi è già ipergarantita dalle ultime controriforme, e di una “visione feticistica della obbligatorietà dell’azione penale”. Ma era il 1988 e non c’era ancora al governo un premier plurimputato, pluriprescritto e plurimpunito grazie a leggi da lui stesso varate. E, soprattutto, Falcone pose quei problemi per tutelare meglio l’indipendenza di tutta la magistratura dalla politica e l’efficacia dei processi (negli Usa l’azione penale discrezionale consente persino di garantire l’immunità ai mafiosi pentiti in cambio della collaborazione).
Berlusconi pone gli stessi problemi, ma con tutt’altri scopi: non quelli di Falcone, ma quelli della P2, di cui era membro con tessera n.1816: mettere le procure e l’azione penale al guinzaglio del governo o comunque della politica. E poi c’è un fatto che taglia la testa al toro: fino al 1989 Falcone era giudice istruttore, carriera giudicante. Poi fece domanda al Csm e passò alla requirente, cioè divenne pm, procuratore aggiunto a Palermo. Stesso percorso fece Borsellino, prima giudice, poi procuratore a Marsala, infine aggiunto a Palermo. Con le carriere separate, non avrebbero mai potuto. Di che parla, dunque, questo presunto allievo di Falcone? Prenda qualche ripetizione, possibilmente non da Dell’Utri, poi si ripresenti all’esame.
Segnalazioni
Cosa disse davvero Falcone - (da antimafiaduemila.com)
Lettera a Giorgio Napolitano contro il Lodo Alfano - di Enzo di Frenna
Streamit.it - la televisione ad alta definizione su web senza concessioni televisive
Il "consistente, ma non trasparente, ampliamento degli utili della Firenze Parcheggi e dei suoi soci privati"* - di Marco Ottanelli
venerdì 22 agosto 2008
Razzisti ma guai a dirlo
di Moni Ovadia
Alcuni anni fa, all´epoca delle prime rozze manifestazioni di linguaggio xenofobo e pararazzista di cui si servivano e si servono diversi esponenti della Lega Nord, è circolata per alcuni mesi, divenendo celebre, una barzelletta che mirava a stigmatizzare con un paradosso, quello squallido linguaggio e tutto il ciarpame che vi sta dietro. La barzelletta è que sta: un vucumprà africano entra in un bar per proporre la sua mercanzia. Il proprietario dell´esercizio, appena ne percepisce la presenza, lo apostrofa con male parole e lo caccia dal locale a spintoni, fuori dal le balle brutto negro! Il malcapitato vucumprà reagisce, razzista! E il barista rabbioso, non sono io che sono razzista è lui che è negro! L´autore di questa barzelletta descrive quello strano ibrido di razzismo e di indignata permalosità, che caratterizza molti esponenti dell´attuale esecutivo che pretendono di avere la libertà di varare provvedimenti di stampo autoritario e razzista, ma trovano intollerabile l´essere accusati di razzismo ed autoritarismo.
Ora, se ad accusarli è un organo di stampa o un organizzazione che essi possono agevolmente collocare nell´amplissimo spettro dell´internazionale comunista - ovvero tutti i partiti non alleati e non proni alla volontà di Berlusconi e il 90% della carta stampata e dei media televisivi - non ci sono problemi, ma se a farlo è il più diffuso settimanale cattolico del paese, per gli esponenti più avveduti del Pdl la questione si fa più spinosa. Bisogna che la Santa Sede e la Conferenza Episcopale prendano le distanze, il che puntualmente avviene. I rappresentanti più guasconi della destra, come l´acuto Gasparri e il crociato Giovanardi, tripudiano e sentenziano: Famiglia Cristiana è un orrido foglio bolscevico! Ma il sommo pontefice Benedetto XVI, a mio parere, si rende subito conto dell´insidioso scivolone commesso dalle gerarchie con la troppo calorosa e troppo schierata presa di distanza dal direttore di Famiglia Cristiana Don Sciortino, e corregge il tiro con una vibrata omelia contro il pericolo attuale e presente del razzismo. Un indignato Giovanardi si affretta a precisare che il Papa parla in generale e non si riferisce certo all´Italia, e lui lo può ben dire perché milita nell´Associazione Italia-Israele dall´età di diciotto anni e dunque lui ha il certificato di buona condotta antirazzista rilasciato da qualche buon «parroco» ebreo che vuole tanto bene al governo israeliano. Il mitico Giovanardi ci scuserà se dissentiamo da lui e pensiamo che Benedetto XVI, pur senza farne menzione per ovvie ragioni di prudenza, si riferisca proprio all´Italia. Il pontefice è tedesco, è stato bimbo e adolescente mentre il nazismo celebrava i suoi «fasti», sa quali sono i frutti avvelenati del razzismo, anche del più «ragionevole», sa bene quale irrimediabile vulnus riceverebbe la Chiesa qualora oggi, il suo pastore, non si schierasse risolutamente contro la peggior peste della storia dell´umanità.
Proviamo anche noi a pensare per un istante cosa sarebbe accaduto se il provvedimento di prendere impronte digitali ai bimbi rom, l´avesse presa un ministro degli interni tedesco. Al ministro Maroni non piace essere considerato un razzista, è comprensibile, probabilmente in termini assoluti non lo è, si limita ad usare la suggestione razzista per scopi politico-elettorali. Ma questo calcolo è comunque razzista, così come è razzista chi glissa, chi attenua, chi volge la testa da un´altra parte. Le ramificazioni della pandemia razzista sono molteplici, alcune sono sotterranee, ambigue, sfuggenti, per riconoscerle è meglio fare riferimento agli specialisti della questione e, anche se non sono gli unici titolati, i grandi specialisti di razzismo sono inequivocabilmente le minoranze e le genti che lo hanno subito.
A
Ora, se ad accusarli è un organo di stampa o un organizzazione che essi possono agevolmente collocare nell´amplissimo spettro dell´internazionale comunista - ovvero tutti i partiti non alleati e non proni alla volontà di Berlusconi e il 90% della carta stampata e dei media televisivi - non ci sono problemi, ma se a farlo è il più diffuso settimanale cattolico del paese, per gli esponenti più avveduti del Pdl la questione si fa più spinosa. Bisogna che la Santa Sede e la Conferenza Episcopale prendano le distanze, il che puntualmente avviene. I rappresentanti più guasconi della destra, come l´acuto Gasparri e il crociato Giovanardi, tripudiano e sentenziano: Famiglia Cristiana è un orrido foglio bolscevico! Ma il sommo pontefice Benedetto XVI, a mio parere, si rende subito conto dell´insidioso scivolone commesso dalle gerarchie con la troppo calorosa e troppo schierata presa di distanza dal direttore di Famiglia Cristiana Don Sciortino, e corregge il tiro con una vibrata omelia contro il pericolo attuale e presente del razzismo. Un indignato Giovanardi si affretta a precisare che il Papa parla in generale e non si riferisce certo all´Italia, e lui lo può ben dire perché milita nell´Associazione Italia-Israele dall´età di diciotto anni e dunque lui ha il certificato di buona condotta antirazzista rilasciato da qualche buon «parroco» ebreo che vuole tanto bene al governo israeliano. Il mitico Giovanardi ci scuserà se dissentiamo da lui e pensiamo che Benedetto XVI, pur senza farne menzione per ovvie ragioni di prudenza, si riferisca proprio all´Italia. Il pontefice è tedesco, è stato bimbo e adolescente mentre il nazismo celebrava i suoi «fasti», sa quali sono i frutti avvelenati del razzismo, anche del più «ragionevole», sa bene quale irrimediabile vulnus riceverebbe la Chiesa qualora oggi, il suo pastore, non si schierasse risolutamente contro la peggior peste della storia dell´umanità.
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martedì 19 agosto 2008
Le vacanze del cafone italico
Il guastafeste, M.Travaglio
da "A" in edicola
L’Italia in vacanza dice molto più di se stessa che nelle altre stagioni. Anche quest’anno sono in ferie in un villaggio turistico (motivi famigliari) e sulla spiaggia, quando non sono impegnato a respingere con cortesia e fermezza le proposte più bizzarre degli animatori che vorrebbero coinvolgermi in un girone infernale di tornei, passo il tempo a leggere e a sonnecchiare. Ma c’è un momento della giornata in cui, qualunque cosa stia facendo, mi blocco e rimango rapito ad ammirare lo spettacolo: l’ora dell’”acquagym”. Una mandria di bagnanti maschi e femmine, perlopiù flaccidi e inguardabili, dunque orgogliosissimi di farsi guardare, ballonzolano ritmicamente per una mezz’oretta buona con l’acqua alla cintola sulle note di vari motivetti della discodance anni 80 tentando invano di ripetere i movimenti che, dalla riva, suggerisce loro una graziosa animatrice.
Fissandoli negli occhi, inspiegabilmente raggianti, si ha la netta impressione che quello sia il loro momento, la loro mezz’oretta di celebrità, una specie di Isola dei Famosi proletaria e democratica, aperta a tutti, senza bisogno di selezioni o nomination. In quei corpi sudaticci e sgraziati, che tremolano come gelatine malferme, c’è tutta la volgarità, l’esibizionismo, la vuotaggine della società italiana degli ultimi anni. Fino a qualche tempo fa, osservando la gente sotto l’ombrellone, era rarissimo trovare qualcuno che non leggesse almeno un giornale, una rivista, un libro. Oggi la stragrande maggioranza non legge nulla. Mai. Per tutto il giorno. Per tutta la vacanza. Il tempo che una volta era dedicato alla lettura oggi è riservato ad armeggiare col cellulare (sempre con suonerie sgangherate e a diecimila decibel), a ripetere ad altissima voce i tormentoni ebeti sentiti alla televisione, a viziare bambini obesi e cafoneggianti ricoprendoli di gelati, ghiaccioli, cornetti, leccalecca, patatine, popcorn e porcherie varie (ultima trovata: il chupa-chupa con ventilatore incorporato, in grado di tranciare anche tre dita per bambino), a guardare nel vuoto per ore e ore sotto il sole, o, per i più impegnati, a grattarsi la pancia davanti a tutti.
Un gruppetto di tamarri sui cinquant’anni prelevano ogni giorno le sdraio dalla fila, le immergono nell’acqua, oltre il bagnascuga, restandovi stravaccati a mollo per tutto il giorno, e lì le lasciano la sera, finchè un’onda non se le porta via, tanto quella mica è roba loro. Devono essere gli stessi che scorrazzano nella stanza sopra la nostra con gli zoccoli ai piedi fino alle quattro del mattino. Di fronte a me, un nonno passa il tempo a farsi dare dello “stronzo-testadicazzo-figliodiputtana” dal nipotino di 6-7 anni. Al posto del moccioso, io da piccolo avrei perso i denti con mio padre e le gengive con mio nonno. Invece questo nonno moderno trova simpaticissimo il nipotino, e lo ricompensa con ogni sorta di regali per la squisita educazione. Tra qualche anno, se tutto va bene, il piccolo mostro diventerà ministro. Dichiarerà guerra ai fannulloni, manderà i soldati nelle strade, chiederà l’arresto dei mendicanti, bandirà Blob e Montalbano dalla televisione pubblica, metterà il grembiule alle scolaresche e il velo ai nudi del Tiepolo, perché è ora di finirla con tutto questo permissivismo e questa volgarità.
da "A" in edicola
L’Italia in vacanza dice molto più di se stessa che nelle altre stagioni. Anche quest’anno sono in ferie in un villaggio turistico (motivi famigliari) e sulla spiaggia, quando non sono impegnato a respingere con cortesia e fermezza le proposte più bizzarre degli animatori che vorrebbero coinvolgermi in un girone infernale di tornei, passo il tempo a leggere e a sonnecchiare. Ma c’è un momento della giornata in cui, qualunque cosa stia facendo, mi blocco e rimango rapito ad ammirare lo spettacolo: l’ora dell’”acquagym”. Una mandria di bagnanti maschi e femmine, perlopiù flaccidi e inguardabili, dunque orgogliosissimi di farsi guardare, ballonzolano ritmicamente per una mezz’oretta buona con l’acqua alla cintola sulle note di vari motivetti della discodance anni 80 tentando invano di ripetere i movimenti che, dalla riva, suggerisce loro una graziosa animatrice.
Fissandoli negli occhi, inspiegabilmente raggianti, si ha la netta impressione che quello sia il loro momento, la loro mezz’oretta di celebrità, una specie di Isola dei Famosi proletaria e democratica, aperta a tutti, senza bisogno di selezioni o nomination. In quei corpi sudaticci e sgraziati, che tremolano come gelatine malferme, c’è tutta la volgarità, l’esibizionismo, la vuotaggine della società italiana degli ultimi anni. Fino a qualche tempo fa, osservando la gente sotto l’ombrellone, era rarissimo trovare qualcuno che non leggesse almeno un giornale, una rivista, un libro. Oggi la stragrande maggioranza non legge nulla. Mai. Per tutto il giorno. Per tutta la vacanza. Il tempo che una volta era dedicato alla lettura oggi è riservato ad armeggiare col cellulare (sempre con suonerie sgangherate e a diecimila decibel), a ripetere ad altissima voce i tormentoni ebeti sentiti alla televisione, a viziare bambini obesi e cafoneggianti ricoprendoli di gelati, ghiaccioli, cornetti, leccalecca, patatine, popcorn e porcherie varie (ultima trovata: il chupa-chupa con ventilatore incorporato, in grado di tranciare anche tre dita per bambino), a guardare nel vuoto per ore e ore sotto il sole, o, per i più impegnati, a grattarsi la pancia davanti a tutti.
Un gruppetto di tamarri sui cinquant’anni prelevano ogni giorno le sdraio dalla fila, le immergono nell’acqua, oltre il bagnascuga, restandovi stravaccati a mollo per tutto il giorno, e lì le lasciano la sera, finchè un’onda non se le porta via, tanto quella mica è roba loro. Devono essere gli stessi che scorrazzano nella stanza sopra la nostra con gli zoccoli ai piedi fino alle quattro del mattino. Di fronte a me, un nonno passa il tempo a farsi dare dello “stronzo-testadicazzo-figliodiputtana” dal nipotino di 6-7 anni. Al posto del moccioso, io da piccolo avrei perso i denti con mio padre e le gengive con mio nonno. Invece questo nonno moderno trova simpaticissimo il nipotino, e lo ricompensa con ogni sorta di regali per la squisita educazione. Tra qualche anno, se tutto va bene, il piccolo mostro diventerà ministro. Dichiarerà guerra ai fannulloni, manderà i soldati nelle strade, chiederà l’arresto dei mendicanti, bandirà Blob e Montalbano dalla televisione pubblica, metterà il grembiule alle scolaresche e il velo ai nudi del Tiepolo, perché è ora di finirla con tutto questo permissivismo e questa volgarità.
mercoledì 13 agosto 2008
La scoperta dell'Ossezia
di Ilvo Diamanti
Non si è capito molto, in Italia, della drammatica crisi che ha scosso la Georgia in questi giorni. I nostri occhi, d'altronde, sono puntati quasi esclusivamente sul cortile di casa. E ci riesce difficile capire anche quel che avviene intorno a noi. Perché siamo un Paese complicato, con una scena politica labirintica e fantasmatica. Ma anche perché non abbiamo un'idea chiara dei confini. Esterni e, ancor prima, interni.
L'abbiamo scritto tempo fa, in una precedente "bussola": dovremmo studiare e insegnare meglio la geografia, nelle nostre scuole. Serve: almeno quanto la "buona condotta". Invece, io continuo a incontrare colleghi (professori universitari) che mi decantano la qualità della vita e dell'ambiente in Umbria. Perché sono convinti che Urbino, dove io insegno e - per una buona parte dell'anno - vivo, sia in Umbria. E quando li smentisco, con un po' di tatto, succede che alcuni si correggano. E spostino Urbino in Toscana. Poco male. Tanto la geografia, in Italia, conta poco. E si studia poco. Con la scusa che cambia di continuo. Fra province e regioni che sorgono ogni anno. Con la scusa che tanto c'è la globalizzazione. I confini non contano. Con internet, i cellulari, le distanze spazio-temporali si annullano. Se vuoi raggiungere una meta, basta usare un navigatore satellitare. Ti guidano dovunque. Anche se ti costringono a itinerari strani e, talora, ti conducono in un luogo diverso dal previsto. Ma tanto, in un mondo senza geografia non c'è alternativa. Devi essere guidato.
Pochi, d'altronde, conoscono il linguaggio e la scrittura del territorio. Per cui è difficile comprendere cosa e perché stia capitando in Georgia. Perché la Russia vi sia intervenuta in modo tanto violento. Lo sconcerto, inoltre, si trasforma in vertigine di fronte alla scoperta dell'Ossezia e dell'Abkhazia. Perché, ad eccezione dei lettori abituali di liMes, quasi nessuno fino ad oggi sospettava dell'esistenza di queste entità. Nel caso dell'Abkhazia, peraltro, è perfino sconveniente nominarne gli abitanti, in pubblico.
Tuttavia, la geografia non è mai stata così importante, proprio perché non è mai stata incerta, aperta, mobile come oggi. Senza più muri certi e invalicabili a tracciare divisioni. Nell'era della comunicazione senza confini: i confini e i contesti - locali e nazionali - sono divenuti di nuovo essenziali. Lotte sempre più dure si combattono nel nome di un nome. E di un "dove". Per conquistare un'identità territoriale. Un nome legato a un dove. Per potersi chiamare osseti oppure (ci si perdoni) abkhazi. Anche se dietro a queste rivendicazioni ci sono, spesso, altri interessi e altri poteri. Altre potenze. La Russia, in questo caso, intenzionata a ostacolare l'intesa della Georgia con l'Occidente. E con gli Usa. E a mantenere saldo il controllo su aree strategiche dal punto di vista dell'energia (petrolio, gas). La Russia, impegnata a ricostruire l'Impero, dopo il crollo del sistema sovietico.
Ma in Italia la geografia e la geopolitica sono assenti: nella scuola, nel senso comune e dalla cultura politica. Come dimostra il dibattito di questi giorni. Fra il comico e il grottesco. La sinistra tace. Afasica. Reticente e imbarazzata come su - troppi - altri argomenti. Berlusconi è impegnato a mettere d'accordo gli amici George W. e Vladimir. Per telefono, dalla sua residenza reale di Villa Certosa. Ricorrerà alla proverbiale capacità di tessere relazioni informali. La "diplomazia della barzelletta", come l'ha definita Edmondo Berselli. Ma dovrà, prima, convincere la Lega, che, per bocca di Calderoli, ha invitato il governo a schierarsi con la Georgia e contro l'aggressione della Russia. Però, anche l'Ossezia del sud denuncia l'aggressione della Georgia; da cui, insieme all'Abkhazia, rivendica l'autonomia. D'altronde, entrambe - Ossezia e Abkhazia - sono, di fatto, Repubbliche indipendenti (con il sostegno attivo e interessato della Russia).
Tuttavia, la Lega ha sempre avuto un atteggiamento eclettico sui conflitti che mirano a ridisegnare la geografia e i confini. Come nelle sanguinose guerre balcaniche dello scorso decennio. Quando si è schierata apertamente per Milosevic. Dalla parte della Serbia e contro il Kosovo. Forse per ostilità verso gli albanesi. O, più probabilmente, verso la Nato, l'Europa e gli Usa. Garanti dell'unità nazionale dell'Italia e dunque nemici della Padania. Ma erano altri tempi e la Lega era all'opposizione di tutti. Ai margini del sistema politico italiano. Mentre oggi sta al governo e si è convertita a un atteggiamento realista. Tuttavia resta il dubbio. Quando Bossi alza il dito medio contro l'inno di Mameli. E, quindi, contro l'unità nazionale. Quando rammenta che quel dito è sempre levato. Intende ribadire, marcare con forza che anche la nostra geografia è provvisoria. Che siamo un Paese provvisorio. Che l'Italia non esiste. O meglio: a Nord c'è la Padania, mentre l'Italia comincia sotto il Po. Sempre più a Sud, però. Perché anche in Emilia Romagna e nelle Marche si levano forti i richiami alla liberazione: da Roma e dagli stranieri che ci invadono. Espressi e amplificati dal crescente successo elettorale della Lega. La Padania, cioè, si espande. E l'Italia si riduce.
In Italia non c'è una comune idea della geopolitica internazionale né dell'interesse nazionale. Tanto meno in questa maggioranza di governo. Anche per questo il nostro peso sulla scena globale è così leggero. E mentre Berlusconi è intento a telefonare agli Amici, Sarkozy negozia e conclude un accordo fra Presidenti.
Il fatto è che l'Italia è confinata ai confini del mondo; e i suoi stessi confini interni sono mobili. Ipotetici e negoziabili. Come il numero delle province, che cresce di anno in anno. E' unita dalle sue divisioni. Divisa dai suoi miti unificanti (presto cancelleremo anche Garibaldi). La sua classe politica e intellettuale è, in gran parte, incapace di scrivere una storia comune. Anzi, ne contesta i pochi elementi condivisi. Perché dovrebbe credere e riconoscersi nella geografia? Per muoversi e orientarsi basta un navigatore satellitare.
(13 agosto 2008) da Repubblica.it
Non si è capito molto, in Italia, della drammatica crisi che ha scosso la Georgia in questi giorni. I nostri occhi, d'altronde, sono puntati quasi esclusivamente sul cortile di casa. E ci riesce difficile capire anche quel che avviene intorno a noi. Perché siamo un Paese complicato, con una scena politica labirintica e fantasmatica. Ma anche perché non abbiamo un'idea chiara dei confini. Esterni e, ancor prima, interni.
L'abbiamo scritto tempo fa, in una precedente "bussola": dovremmo studiare e insegnare meglio la geografia, nelle nostre scuole. Serve: almeno quanto la "buona condotta". Invece, io continuo a incontrare colleghi (professori universitari) che mi decantano la qualità della vita e dell'ambiente in Umbria. Perché sono convinti che Urbino, dove io insegno e - per una buona parte dell'anno - vivo, sia in Umbria. E quando li smentisco, con un po' di tatto, succede che alcuni si correggano. E spostino Urbino in Toscana. Poco male. Tanto la geografia, in Italia, conta poco. E si studia poco. Con la scusa che cambia di continuo. Fra province e regioni che sorgono ogni anno. Con la scusa che tanto c'è la globalizzazione. I confini non contano. Con internet, i cellulari, le distanze spazio-temporali si annullano. Se vuoi raggiungere una meta, basta usare un navigatore satellitare. Ti guidano dovunque. Anche se ti costringono a itinerari strani e, talora, ti conducono in un luogo diverso dal previsto. Ma tanto, in un mondo senza geografia non c'è alternativa. Devi essere guidato.
Pochi, d'altronde, conoscono il linguaggio e la scrittura del territorio. Per cui è difficile comprendere cosa e perché stia capitando in Georgia. Perché la Russia vi sia intervenuta in modo tanto violento. Lo sconcerto, inoltre, si trasforma in vertigine di fronte alla scoperta dell'Ossezia e dell'Abkhazia. Perché, ad eccezione dei lettori abituali di liMes, quasi nessuno fino ad oggi sospettava dell'esistenza di queste entità. Nel caso dell'Abkhazia, peraltro, è perfino sconveniente nominarne gli abitanti, in pubblico.
Tuttavia, la geografia non è mai stata così importante, proprio perché non è mai stata incerta, aperta, mobile come oggi. Senza più muri certi e invalicabili a tracciare divisioni. Nell'era della comunicazione senza confini: i confini e i contesti - locali e nazionali - sono divenuti di nuovo essenziali. Lotte sempre più dure si combattono nel nome di un nome. E di un "dove". Per conquistare un'identità territoriale. Un nome legato a un dove. Per potersi chiamare osseti oppure (ci si perdoni) abkhazi. Anche se dietro a queste rivendicazioni ci sono, spesso, altri interessi e altri poteri. Altre potenze. La Russia, in questo caso, intenzionata a ostacolare l'intesa della Georgia con l'Occidente. E con gli Usa. E a mantenere saldo il controllo su aree strategiche dal punto di vista dell'energia (petrolio, gas). La Russia, impegnata a ricostruire l'Impero, dopo il crollo del sistema sovietico.
Ma in Italia la geografia e la geopolitica sono assenti: nella scuola, nel senso comune e dalla cultura politica. Come dimostra il dibattito di questi giorni. Fra il comico e il grottesco. La sinistra tace. Afasica. Reticente e imbarazzata come su - troppi - altri argomenti. Berlusconi è impegnato a mettere d'accordo gli amici George W. e Vladimir. Per telefono, dalla sua residenza reale di Villa Certosa. Ricorrerà alla proverbiale capacità di tessere relazioni informali. La "diplomazia della barzelletta", come l'ha definita Edmondo Berselli. Ma dovrà, prima, convincere la Lega, che, per bocca di Calderoli, ha invitato il governo a schierarsi con la Georgia e contro l'aggressione della Russia. Però, anche l'Ossezia del sud denuncia l'aggressione della Georgia; da cui, insieme all'Abkhazia, rivendica l'autonomia. D'altronde, entrambe - Ossezia e Abkhazia - sono, di fatto, Repubbliche indipendenti (con il sostegno attivo e interessato della Russia).
Tuttavia, la Lega ha sempre avuto un atteggiamento eclettico sui conflitti che mirano a ridisegnare la geografia e i confini. Come nelle sanguinose guerre balcaniche dello scorso decennio. Quando si è schierata apertamente per Milosevic. Dalla parte della Serbia e contro il Kosovo. Forse per ostilità verso gli albanesi. O, più probabilmente, verso la Nato, l'Europa e gli Usa. Garanti dell'unità nazionale dell'Italia e dunque nemici della Padania. Ma erano altri tempi e la Lega era all'opposizione di tutti. Ai margini del sistema politico italiano. Mentre oggi sta al governo e si è convertita a un atteggiamento realista. Tuttavia resta il dubbio. Quando Bossi alza il dito medio contro l'inno di Mameli. E, quindi, contro l'unità nazionale. Quando rammenta che quel dito è sempre levato. Intende ribadire, marcare con forza che anche la nostra geografia è provvisoria. Che siamo un Paese provvisorio. Che l'Italia non esiste. O meglio: a Nord c'è la Padania, mentre l'Italia comincia sotto il Po. Sempre più a Sud, però. Perché anche in Emilia Romagna e nelle Marche si levano forti i richiami alla liberazione: da Roma e dagli stranieri che ci invadono. Espressi e amplificati dal crescente successo elettorale della Lega. La Padania, cioè, si espande. E l'Italia si riduce.
In Italia non c'è una comune idea della geopolitica internazionale né dell'interesse nazionale. Tanto meno in questa maggioranza di governo. Anche per questo il nostro peso sulla scena globale è così leggero. E mentre Berlusconi è intento a telefonare agli Amici, Sarkozy negozia e conclude un accordo fra Presidenti.
Il fatto è che l'Italia è confinata ai confini del mondo; e i suoi stessi confini interni sono mobili. Ipotetici e negoziabili. Come il numero delle province, che cresce di anno in anno. E' unita dalle sue divisioni. Divisa dai suoi miti unificanti (presto cancelleremo anche Garibaldi). La sua classe politica e intellettuale è, in gran parte, incapace di scrivere una storia comune. Anzi, ne contesta i pochi elementi condivisi. Perché dovrebbe credere e riconoscersi nella geografia? Per muoversi e orientarsi basta un navigatore satellitare.
(13 agosto 2008) da Repubblica.it
martedì 5 agosto 2008
I "Gemelli"
Ora d'aria
l'Unità, 5 agosto 2008
L’altra sera, in quella parodia di telegiornale che si fa chiamare Tg1, il ridanciano Attilio Romita annunciava giulivo come quarta notizia del giorno che “prende sempre più piede la moda dell’aperitivo in spiaggia… e allora cin-cin in riva al mare!”. In compenso, a una settimana di distanza, si attende ancora un servizio che metta a confronto Italia e Israele in relazione a una straordinaria coincidenza (entrambe le democrazie hanno il premier sott’accusa per corruzione) e a un’altrettanto straordinaria differenza: in Israele salta il premier sotto processo, in Italia saltano i processi al premier. Per legge.
Ora, visto che i servi sparsi per giornali e tg hanno raccontato per un mese che il Lodo Alfano “esiste in tutte le democrazie del mondo”, il giornalismo anglosassone di cui Johhny Raiotta è maestro (come si può notare dalla camicia bianca) imporrebbe una qualche rettifica. Del tipo: “Gentili telespettatori, vi è stato raccontato che, nelle altre democrazie, il premier è coperto da immunità: bene, siamo lieti di informarvi che non è vero, l’immunità ce l’ha solo il nostro”. Lo stesso potrebbero fare i giornali, come il Corriere, popolato di fans sfegatati di Israele nonché denunciatori indefessi della presunta “anomalia” costituita dai processi a Berlusconi. Invece niente, silenzio di tomba. E dire che, tra il caso Olmert e il caso Al Tappone, c’è un abisso. Il primo avrebbe mille ragioni in più del secondo per restare al suo posto. Olmert non è stato ancora formalmente incriminato, Al Tappone è imputato in seguito a due rinvii a giudizio e a una terza richiesta di rinvio a giudizio. Il reato contestato a Olmert è infinitamente meno grave di quelli contestati ad Al Tappone: nessuna corruzione di testimoni o di dirigenti televisivi, nessuna compravendita di senatori, nessuna frode fiscale, ma una modesta vicenda di finanziamenti elettorali non dichiarati (la miseria di 150 mila dollari ricevuti, secondo l’accusa, dal magnate americano Morris Talsunky). L’indagine a suo carico è nata dopo la sua ascesa alla guida del governo, non prima. I fatti contestati riguardano la sua attività politica, non i suoi affari privati (Olmert non ne ha). Israele, poi, è un paese in guerra da quand’è nato e nei prossimi mesi potrebbe giungere finalmente alla pace con i palestinesi.
Insomma, almeno per i canoni italioti, non sarebbe stato affatto scandaloso se Olmert si fosse presentato in tv per annunciare che sarebbe rimasto al suo posto per non lasciare senza guida il suo Paese in un momento così delicato. Invece il pensiero non l’ha neppure sfiorato. Con un discorso pieno di dignità e di senso dello Stato, che andrebbe affisso su tutte le pareti del Parlamento e del governo italiano e studiato a memoria dai nostri sedicenti rappresentanti, il premier israeliano ha detto quanto segue: “Sono fiero di appartenere a uno Stato in cui un premier può essere investigato come un semplice cittadino. Un premier non può essere al di sopra della legge, ma nemmeno al di sotto. Se devo scegliere fra me, la consapevolezza di essere innocente, e il fatto che restando al mio posto possa mettere in grave imbarazzo il Paese che amo e che ho l’onore di rappresentare, non ho dubbi: mi faccio da parte perché anche il primo ministro dev’essere giudicato come gli altri. Dimostrerò che le accuse di corruzione sono infondate da cittadino qualunque. Errori ne ho commessi e me ne pento. Per la carica che occupo ero consapevole di poter finire al centro di attacchi feroci. Ma nel mio caso si è passata la misura”.
Parole nobili che, dunque, non sono piaciute al Foglio di Giuliano Ferrara. Ammiratore fanatico di Israele, stavolta il Platinette Barbuto commenta incredulo: “La stampa israeliana è terribile, quando ha un pezzo di carne tra i denti è difficile che lo molli. Neppure se si chiama Olmert. Maariv e Yedioth Ahronot hanno pubblicato le deposizioni del premier, parola per parola… Verbali devastanti per Olmert… Dalla procura spiegano che le prove acquisite vanno ben oltre la testimonianza di Talansky... Olmert dovrà testimoniare per la quarta volta”.
Capite la gravità della situazione? La stampa israeliana fa il suo dovere e pubblica i verbali senza che nessuno chieda una legge per silenziarla. La procura spiega le prove senza che nessuno chieda l’arresto o il trasferimento dei pm. Il premier viene convocato per quattro volte dai magistrati senza che nessuno strilli all’”uso politico della giustizia”, anzi Olmert si presenta ogni volta dinanzi ai suoi accusatori anziché rispondere che ha di meglio da fare. Il capo dello Stato, anziché tuonare contro la “giustizia spettacolo” o salmodiare su presunti “scontri fra politica e magistratura”, se ne sta zitto e buono. E, udite udite, sia le opposizioni sia i vertici del partito Kadima premevano da tempo perché Olmert si dimettesse. Roba da matti. In Israele gli oppositori si oppongono senza che nessuno si sogni di accusarli di giustizialismo, dipietrismo o anti-olmertismo. Anche perché Israele non conosce fenomeni come Galli della Loggia, Panebianco, Ostellino, Battista, Romano, Franco & Franchi, Polito El Drito e gli altri trombettieri del Lodo. Che infatti, alla notizia delle dimissioni di Olmert, si son subito messi in ferie.
M. Travaglio
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sabato 2 agosto 2008
Il "caso" Englaro
di F. Colombo
La frase del giorno (da destra): "Denunciamo e respingiamo l'esproprio da parte della magistratura della funzione legislativa propria del Parlamento".
L'altra frase del giorno (da sinistra): "Un fermo no a qualsiasi forma di eutanasia. Vogliamo Eluana viva."
Bisogna sapere che circa 500 membri della Camera dei Deputati della Repubblica Italiana il giorno 31 luglio, ultima ora di una giornata carica di impegni arretrati come in uno di quegli uffici cari a Brunetta (sono stati approvati e trasformati in legge trattati firmati nel 1999, nel 2002, nel 2005 con paesi che avevano approvato quel trattato il mese dopo e che avranno già dimenticato di avere un impegno con l'Italia), hanno pensato bene di dedicare un'oretta frivola, fatta di dichiarazioni senza senso e di finte declamazioni su diritto alla vita, alla questione Eluana Englaro.
Quale questione? La Corte di Cassazione ha sentenziato che il padre di Eluana può chiedere ai medici di interrompere il sostegno forzato a una irreversibile stato vegetativo che dura da sedici anni. Come respingere una sentenza di civiltà? C'è un percorso. Folle, ma c'è.
S'intende che si sono ascoltate macabre arringhe del Popolo della Libertà (pronunciate a Montecitorio da ex avvocati di seconda fila e non da clinici al capezzale) secondo cui, dopo quasi due decenni, la destra prevede e si aspetta il risveglio. Ma l'espediente è il seguente: è vero che Camera e Senato, la sua destra, e i suoi crudeli credenti di destra e sinistra, non hanno mai legiferato, e che anzi, una maggioranza trasversale di deputati e senatori Vaticani, ha impedito tutto in materia di fine della vita, compreso il Testamento Biologico, attraverso la trovata di bollare tutto come "eutanasia".
Ma questo Parlamento non solo esige il blocco di ogni legge. Esige anche il blocco di ogni sentenza. Ovvero io non faccio la legge. E tu - Giudice - devi dire: "Che peccato, io l'avrei una decisione da prendere per una simile tragedia che inchioda il padre per sedici anni al capezzale della figlia spenta per sempre. Ma non posso farne una sentenza perché loro (deputati e senatori) non hanno voluto farne una legge. E io, senza legge, non parlo".
In questo modo il blocco dura per sempre. E il Santo Padre è servito. Solo quello che dice Lui è legge. Per gli altri basta astenersi e tacere. E per chi cade nella tragedia di Eluana e del padre di Eluana, fatti loro. Ci mancherebbe che deputati e giudici debbano farsi carico dei dolori del mondo. E così una danza macabra ha avuto luogo a metà giornata nell'Aula della Camera dei Deputati, il 31 luglio.
Invano qualche laico e qualche giurista hanno tentato di riportare il Parlamento a un comportamento più decoroso. La vergogna infatti sta nell'idea di un Parlamento - Camera e Senato - che denuncia un giudice e la sua sentenza alla Corte Costituzionale con l'espediente: niente legge (non la faremo mai), niente sentenza (benché il giudice abbia avuto il coraggio di farla ispirandosi ai fondamenti del diritto della Costituzione e della civiltà democratica).
La vergogna sta nella conclusione. Dopo il Senato anche la maggioranza della Camera ha votato la denuncia di una sentenza civile e coraggiosa di un giudice che ha scelto di dire "Qui qualcuno deve decidere. Basta gioco sul dolore".
Ma la vergogna continua quando si apprende che anche la Procura Generale ha impugnato la sentenza, bloccandone l'esecuzione (il Parlamento non poteva) facendo proprie, alla lettera, le ragioni vaticane della Chiesa e del Parlamento, stessi concetti, stesse parole.
La lezione è tremenda. Dice in modo perentorio "ERGA OMNES":
NON ILLUDETEVI.
NON C'E UNA CIVILE VIA D'USCITA.
NON IN ITALIA.
NON OGGI.
(1 agosto 2008) - da Micromegaonline
La frase del giorno (da destra): "Denunciamo e respingiamo l'esproprio da parte della magistratura della funzione legislativa propria del Parlamento".
L'altra frase del giorno (da sinistra): "Un fermo no a qualsiasi forma di eutanasia. Vogliamo Eluana viva."
Bisogna sapere che circa 500 membri della Camera dei Deputati della Repubblica Italiana il giorno 31 luglio, ultima ora di una giornata carica di impegni arretrati come in uno di quegli uffici cari a Brunetta (sono stati approvati e trasformati in legge trattati firmati nel 1999, nel 2002, nel 2005 con paesi che avevano approvato quel trattato il mese dopo e che avranno già dimenticato di avere un impegno con l'Italia), hanno pensato bene di dedicare un'oretta frivola, fatta di dichiarazioni senza senso e di finte declamazioni su diritto alla vita, alla questione Eluana Englaro.
Quale questione? La Corte di Cassazione ha sentenziato che il padre di Eluana può chiedere ai medici di interrompere il sostegno forzato a una irreversibile stato vegetativo che dura da sedici anni. Come respingere una sentenza di civiltà? C'è un percorso. Folle, ma c'è.
S'intende che si sono ascoltate macabre arringhe del Popolo della Libertà (pronunciate a Montecitorio da ex avvocati di seconda fila e non da clinici al capezzale) secondo cui, dopo quasi due decenni, la destra prevede e si aspetta il risveglio. Ma l'espediente è il seguente: è vero che Camera e Senato, la sua destra, e i suoi crudeli credenti di destra e sinistra, non hanno mai legiferato, e che anzi, una maggioranza trasversale di deputati e senatori Vaticani, ha impedito tutto in materia di fine della vita, compreso il Testamento Biologico, attraverso la trovata di bollare tutto come "eutanasia".
Ma questo Parlamento non solo esige il blocco di ogni legge. Esige anche il blocco di ogni sentenza. Ovvero io non faccio la legge. E tu - Giudice - devi dire: "Che peccato, io l'avrei una decisione da prendere per una simile tragedia che inchioda il padre per sedici anni al capezzale della figlia spenta per sempre. Ma non posso farne una sentenza perché loro (deputati e senatori) non hanno voluto farne una legge. E io, senza legge, non parlo".
In questo modo il blocco dura per sempre. E il Santo Padre è servito. Solo quello che dice Lui è legge. Per gli altri basta astenersi e tacere. E per chi cade nella tragedia di Eluana e del padre di Eluana, fatti loro. Ci mancherebbe che deputati e giudici debbano farsi carico dei dolori del mondo. E così una danza macabra ha avuto luogo a metà giornata nell'Aula della Camera dei Deputati, il 31 luglio.
Invano qualche laico e qualche giurista hanno tentato di riportare il Parlamento a un comportamento più decoroso. La vergogna infatti sta nell'idea di un Parlamento - Camera e Senato - che denuncia un giudice e la sua sentenza alla Corte Costituzionale con l'espediente: niente legge (non la faremo mai), niente sentenza (benché il giudice abbia avuto il coraggio di farla ispirandosi ai fondamenti del diritto della Costituzione e della civiltà democratica).
La vergogna sta nella conclusione. Dopo il Senato anche la maggioranza della Camera ha votato la denuncia di una sentenza civile e coraggiosa di un giudice che ha scelto di dire "Qui qualcuno deve decidere. Basta gioco sul dolore".
Ma la vergogna continua quando si apprende che anche la Procura Generale ha impugnato la sentenza, bloccandone l'esecuzione (il Parlamento non poteva) facendo proprie, alla lettera, le ragioni vaticane della Chiesa e del Parlamento, stessi concetti, stesse parole.
La lezione è tremenda. Dice in modo perentorio "ERGA OMNES":
NON ILLUDETEVI.
NON C'E UNA CIVILE VIA D'USCITA.
NON IN ITALIA.
NON OGGI.
(1 agosto 2008) - da Micromegaonline
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