giovedì 26 febbraio 2009

Davvero bisogna dire sì all’energia nucleare?


di Angelo Baracca, Professore di fisica all'Università di Firenze.


L’articolo di Giovanni Ciccotti e Claude Guet a favore di un rilancio dei programmi elettronucleari è seguito dalle considerazioni critiche molto efficaci di Giorgio Parisi, ma credo meriti qualche ulteriore risposta nel merito.
Mi sembra sbrigativo e parziale chiedersi i motivi «che hanno spinto un certo numero di paesi, fra cui l’Italia, ad abbandonare la via nucleare, mentre altri, come la Francia, proseguivano per questa via». In primo luogo, anche negli USA gli imprenditori elettrici (che sono, ricordiamolo, privati) da 30 anni non hanno più ordinato una centrale nucleare. In Francia – dove la produzione di energia elettrica era (e in larga parte rimane) nazionalizzata – questa scelta si è affiancata alla Force de Frappe: se lo si dimentica si rischia di distorcere completamente il problema: quanti costi effettivi del programma civile potrebbero essere celati dietro quello militare? É che l’utente francese paghi costi elettrici aggiuntivi celati tra le imposte, per le spese militari? Nonostante questa scelta i consumi totali di energia in Francia sono coperti per il 70 % dai combustibili fossili! Parisi ricorda opportunamente che l’energia elettrica copre meno di un quinto dei consumi finali di energia: la Francia produce il 78 % dell’energia elettrica dal nucleare, ed importa più petrolio di noi (92.000 contro 83.000 milioni di tonnellate equivalenti, con un consumo pro capite superiore del 10 %, anche rispetto a Germania e Regno Unito!); importa meno gas, è vero, ma perché, proprio per “sostenere” il “tutto nucleare”, ha promosso il riscaldamento elettrico delle abitazioni, che è lo spreco energetico più assurdo.

Non sarei così categorico nell’affermare che «l’energia nucleare è sicura e partecipe di uno sviluppo durevole». Bisognerebbe intendersi sul termine “sicurezza” e sulla natura del rischio. Credo che spesso si confrontino tra loro cose che confrontabili non sono. Un incidente nucleare è talmente più grave di qualunque incidente possa accadere a qualsiasi impianto convenzionale che il confronto non ha senso. Ci scordiamo i tempi in cui ci garantivano che un incidente grave a una centrale nucleare aveva una probabilità ridicolmente bassa? É semplicistico ridurre l’insicurezza alla negligenza russa: gli imprenditori statunitensi non ordinarono nuove centrali nucleari dopo l’incidente di Harrisburg del 1979 (non meno grave, tutti si aspettavano da un momento all’altro che il contenitore scoppiasse); nel 2002 in un reattore dell’Ohio «l’industria nucleare statunitense ha sfiorato più da vicino un disastro dall’incidente di Three Mile Island del 1979» [Victor Gilinsky, Washington Post, 28 aprile 2002]. E mostrarono meno incuria le autorità francesi che nascosero all’opinione pubblica la nube di Chernobyl? Il 2008 ha registrato un numero di incidenti nucleari incredibile! Incidenti non gravi, si dice. E chi ce lo garantisce, quando le autorità competenti fanno a gara per sdrammatizzare, non di rado nascondere, gli incidenti (si veda il caso della Spagna, con ben sei mesi di silenzio; del Giappone).
Ma a parte l’eventualità di incidenti, non possiamo ignorare i rilasci radioattivi di una centrale nucleare durante il normale funzionamento: le recise negazioni degli esperti sono contraddette dall’accumularsi dell’evidenza dell’aumento dell’incidenza di leucemie e tumori nei pressi delle centrali [Ian Fairlie, “Childhood Leukemias Near Nuclear Power Stations“, con referenze specifiche]. Non ha senso, poi, drammatizzare i pericoli di attentati terroristici ed ignorare la vulnerabilità delle centrali e dei depositi nucleari. La stessa NRC statunitense, che sperimenta periodicamente falsi attacchi con il preavviso di mesi, registra l’inadeguatezza dei sistemi di sicurezza. Ma anche «il desiderio della NRC di evitare di imporre all’industria nucleare alti costi per la sicurezza incide sui requisiti di sicurezza» [L. Gronlund, D. Lochbaum e E. Lyman, Nuclear Power in a Warming World: Assessing the Risks, Addressing the Challenges, Union of Concerned Scientists, Dicembre 2007, p. 5]. Un problema particolare è rappresentato dalle piscine per la custodia del combustibile esaurito, che non sono protette da edifici di contenimento e sono quindi vulnerabili ad attacchi terroristici, che provocherebbero il rilascio nell’ambiente di grandi quantità di materiali radioattivi.
L’approvvigionamento di uranio secondo gli autori «non rischia di generare conflitti di natura geopolitica». Veramente in Nigeria si è sviluppata una vera e propria guerriglia. Il governo nigeriano ha imposto un aumento dei prezzi del 50 %, e nel futuro si prospettano aumenti maggiori. Areva è accusata di avere creato una grave contaminazione ambientale da uranio in Nigeria e Gabon. Il mercato dell’uranio è accentrato nelle mani di “sette cugine”, che ricordano un po’ le “sette sorelle” di infausta memoria del petrolio.

Gratuite e infondate mi sembrano le affermazioni che «la maggior parte degli esperti sono d’accordo nello stimare il costo del Megawattora elettrico a circa 40 €, includendoci i costi legati allo smantellamento e alla gestione completa delle scorie», e che «ci sono risposte tecnologiche affidabili, a costo accettabile, alla sorte delle scorie». Nessun paese ha realizzato soluzioni concrete: il progetto che è andato più avanti è il deposito di Yucca Mountain negli USA, ma dopo quasi 20 anni e fior di miliardi spesi non è realizzato, ed è anzi fermo per i grossi problemi che ha posto. Non appare credibile che nel Megawattora elettrico siano conteggiati costi incerti e ignoti! Lo stesso dicasi per il decommissioning delle centrali, per il quale non vi sono stati esperimenti significativi ed i costi effettivi rimangono estremamente incerti. Il rapporto "Decommissioning Nuclear Power Plants. Policies, Strategies and Costs" [NEA/OECD, 2003] indica in 500$/KWe la soglia minima per i reattori ad acqua leggera, mentre per i reattori a gas il costo medio si collocherebbe intorno ai 2500$/kWe anche se il dato è poco significativo in quanto riferito ai vecchi GCR e non ai più recenti HTGR (High Temperature Gas Reactor): ma i costi finali non hanno una composizione omogenea anche per i criteri seguiti, perché alcuni intendono il decommissioning come risanamento totale del sito, mentre altri come sua gestione controllata a lungo termine. Questo vale a maggior ragione per le centrali che saranno costruite in futuro, la cui vita operativa è programmata per 60 anni: chi può essere in grado di proporre una valutazione seria di quali potranno essere i costi (di tutti i componenti, dal lavoro vivo alle tecnologie), e i problemi in un arco di tempo di un secolo, nelle condizioni di crescente instabilità dell’economia e degli equilibri mondiali e di aggravamento delle condizioni ambientali? Nessuno poi cita il problema del decommissioning delle miniere di uranio: negli anni ’80 il governo USA ha finanziato un programma di risanamento delle miniere americane esaurite (UMTRA = Uranium Mills Tailing Remediation Action) i cui risultati parziali sono stati pubblicati dal DOE nel 2001 quando, esauriti i fondi a disposizione, restavano ancora da bonificare 9 siti minerari per un budget di spesa all’incirca uguale a quello inizialmente stanziato.

Confesso poi che mi delude vedere ripetere il refrain secondo cui «il nucleare non emette gas a effetto serra». La reazione a catena nel nocciolo non ne produce, ma tutti i processi a monte e a valle ne producono: estrazione, trasporto e lavorazione del combustibile, arricchimento dell’uranio, costruzione della centrale, trattamento e sistemazione dei rifiuti, decommissioning. Per la valutazione complessiva delle emissioni risulta cruciale la considerazione della concentrazione di uranio nel minerale dei giacimenti che vengono sfruttati; che si lega anche alla valutazione delle riserve di uranio. È evidente che se per ottenere 1 kg di uranio da un giacimento con concentrazione dello 0,1% occorre estrarre e lavorare una tonnellata di materiale, ne occorreranno 10 volte di più per ottenere lo stesso quantitativo di uranio se la concentrazione del giacimento è pari allo 0,01%; ed aumenta anche il costo energetico. Secondo uno studio quantitativo [Jan Willem Storm Van Leeuwen e Philip Smith, “Facts and data: Is nuclear power sustainable; would its use reduce CO2 emissions?”, 2003, 2005, http://www.elstatconsultant.nl/] vi è un limite fisico (grado di concentrazione compreso tra 0,03 – 0,04% di uranio) oltre il quale l’energia necessaria ai processi di estrazione e lavorazione dell’uranio supera quella ottenibile dal suo impiego nei reattori; inoltre le emissioni del ciclo nucleare si aggirano attualmente sul 35 % (non zero!) rispetto a quelle di una centrale in ciclo combinato a gas, ma per concentrazioni inferiori allo 0,1% aumentano vertiginosamente, fino a raggiungere e superare quelle dell’impianto a gas. Naturalmente si può non essere d’accordo con questo studio, ma vista la sua impostazione rigorosa lo si dovrebbe contestare nel merito.
Anche Parisi critica la proposta di fondo di arrivare ad una «produzione mondiale di elettricità coperta al 50% dal nucleare, decuplicando la potenza nucleare mondiale attuale per portarla a circa 4000 GWa». In primo luogo, è realistico? Poiché si parla di centrali la cui costruzione deve ancora essere iniziata, e tenendo conto dei tempi medi di costruzione, questo vorrebbe dire dal 2020 inaugurare nel mondo più di 30 nuove centrali nucleari ogni anno, ad un ritmo medio costante di 2-3 al mese! (Il costo annuale supererebbe i 150 miliardi di dollari, ma su questo ritornerò). Personalmente non ci credo! Senza contare l’aspetto già citato, che l’energia elettrica è meno di un quinto dei consumi finali: che facciamo per gli altri quattro quinti? Non è il caso di partire proprio da quelli?
Ma un tale obiettivo sarebbe davvero auspicabile? Il sistema elettrico “tutto nucleare” della Francia genera non pochi problemi ed inefficienze, per la sua rigidità. Poiché le centrali nucleari non sono modulabili per seguire le variazioni giornaliere della curva di carico, devono coprire i picchi normali: ne segue che durante i minimi la Francia deve vendere energia elettrica a prezzi stracciati; ma quando si verificano condizioni eccezionali, ondate di freddo o di calore, deve comprare dall’estero energia di picco, quindi molto cara. Per far fronte all’onda di freddo di questo inverno la Francia ha dovuto importare energia elettrica, soprattutto dalla Germania (da 5 anni la Germania è diventata esportatrice netta di energia verso la Francia, e non il contrario). Tali rigidità e vulnerabilità sarebbero ingigantite per paesi con piccole potenze installate: la costruzione di una centrale da 1.600 MW in paesi come la Giordania, che ha poco più di 2000 MW installati, o gli Emirati Arabi Uniti, che ne hanno 14.000, renderebbe il loro sistema energetico estremamente vulnerabile, perché la difficoltà di sopperire ad un guasto, anche temporaneo.

Ma vi è ancora un aspetto cruciale. Gli investimenti complessivi richiesti sarebbero dell’ordine del trilione di dollari: tali costi saranno compatibili con la crisi mondiale, con gli scenari geopolitici futuri così incerti, con i conflitti che si delineano? Già oggi le banche statunitensi e Wall Street sono tutt’altro che inclini a prestare i fondi necessari, a meno che i prestiti non siano garantiti dal Governo Federale: «secondo l’industria nucleare il Governo dovrebbe proteggere gli investitori nel caso i progetti iniziali andassero male», riportava il Washington Post del 5 settembre 2007 con il significativo sottotitolo: «Il finanziamento, più che la sicurezza, sembra il fattore chiave che determinerà se i progetti procederanno». Il Wall Street Journal del 12 maggio 2008 denunciava che l’aumento dei costi previsti per le centrali nucleari progettate «sta causando qualche shock imbarazzante: da 5 miliardi di dollari a 12 miliardi per un impianto, fra il doppio e il quadruplo delle prime stime»! [Keith Johnson, “It’s economics, stupid: nuclear power’s bogeyman”, 12/05/2008]. Recentemente Amory Lovins, direttore scientifico del Rocky Mountain Institute, ha commentato: «Sostanzialmente, possiamo avere tante centrali nucleari quante il Congresso sarà capace di far pagare ai contribuenti. Ma non ne avremo nessuna in un’economia di mercato».
Di fatto è quello che si sta verificando nella costruzione del reattore EPR di III generazione a Olkiluoto, in Finlandia, che ha accumulato un ritardo di più di due anni nella costruzione, con un aumento dei costi di più di 2 miliardi di euro. È significativo che i motivi principali sono di ordine tecnico (e si sono verificati anche nella costruzione del reattore a Flamanville, che per questo era stata interrotta), e cioè la difficoltà per le aziende costruttrici di soddisfare le caratteristiche tecniche eccezionali richieste da una centrale nucleare: qualità delle saldature, del cemento, dell’acciaio, ecc. Che cosa accadrebbe in Italia? Basta ricordare che Italcementi ha fornito cemento fasullo per le Grandi Opere (per fare un paragone, i costi chilometrici dell’Alta Velocità ferroviaria in Italia risultano in media cinque volte superiori a quelli delle analoghe tratte in altri paesi). Il governo si era impegnato ad indicare le localizzazioni per la fine del 2008, ma ha evidentemente incontrato qualche difficoltà (et pour cause!). La Regione Emilia Romagna si è dichiarata contraria alla riattivazione del sito della Centrale di Caorso.

Non posso concludere questa disamina senza accennare a quello che in fondo io ritengo l’argomento dirimente: l’intrinseco, ineliminabile dual-use della tecnologia nucleare, che sembra preoccupare solo quando si tratta della Corea del Nord o dell’Iran (perché il Brasile ha realizzato la tecnologia dell’arricchimento senza che nessuno fiatasse; e il padre della bomba pachistana, Kahn, ha avuto aiuti da cani e porci, come è emerso anche dallo scandalo delle spie svizzere Urs e Marco Tinners, al soldo della CIA). Sarà davvero il caso di diffondere in questo pazzo mondo la tecnologia nucleare? La Corea del Nord, che non è un gigante tecnologico, nel 2005 è uscita dal TNP (legittimamente, con tre mesi di preavviso), ha riattivato un piccolo reattore, ha ritrattato il combustibile, e nel 2007 ha eseguito un test nucleare. La IAEA valuta che siano più di 30 i paesi che hanno la capacità di costruire la bomba. Abbiamo prodotto nel mondo circa 3,000 tonnellate di plutonio, uranio altamente arricchito, attinidi: sarebbe il caso di fermarsi.

(25 febbraio 2009)

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