mercoledì 30 luglio 2008

Alitalia sta a guardare, il mondo corre

di Massimo Riva

Mentre a Roma ci si continua a baloccare attorno a una piccola Alitalia in tricolore, nel resto del mondo si corre, anzi si vola. La partecipazione di nozze fra British Airways e Iberia che Londra e Madrid hanno spedito ieri ai mercati non giunge inattesa e sarà forse presto accompagnata dall'annuncio di un "ménage a trois" con American Airlines.

I costi del trasporto aereo sono talmente schizzati verso l'alto - a causa dei prezzi dei carburanti, ma non solo - che la corsa a realizzare grandi dimensioni aziendali è diventata un passaggio obbligato per chi voglia sopravvivere in un mercato diventato sempre più duro. Tanto in Europa quanto oltre l'Atlantico. È di poche settimane fa la notizia della nascita di un nuovo colosso dei cieli Usa con la fusione fra Delta e Northwest. Subito seguita dalla firma di una stretta alleanza commerciale fra altri due giganti americani, Continental e United Airlines, preludio a ulteriori passi che porteranno United a un'integrazione con la rete Lufthansa. Un via libera in tal senso è già stato chiesto all'Antitrust di Washington.

In questo scenario internazionale in grande movimento quanto sta accadendo in Italia appare come l'ennesimo segnale di un Paese bloccato da una classe dirigente incapace di guardare aldilà del proprio naso. Altrove in poche settimane si formulano ipotesi strategiche, si fanno conti e piani industriali, si riuniscono i consigli di amministrazione e si prendono le delibere necessarie per organizzare fusioni e alleanze che permettano alle imprese di andare oltre le difficoltà incombenti. Da noi sono passati quattro mesi da quando, irretiti dalle altisonanti promesse di Silvio Berlusconi, i sindacati hanno creduto di fare i furbi facendo scappare il presidente di Air France dal tavolo dell'unica trattativa seria che avrebbe potuto garantire ad Alitalia un futuro di compagnia aperta sul mondo. Quattro mesi assai costosi perché così se ne sono andati in fumo anche i trecento milioni del prestito che il Tesoro - in nome e per conto dei contribuenti - ha versato nelle esauste casse di Alitalia.

E ora, mentre nel resto del pianeta si uniscono o si fondono compagnie di Paesi diversi senza perdite di tempo e denaro in miserevoli "querelles" da campanile, sembra che la luminosa idea dei patriottici salvatori di Alitalia sia quella di unire le magagne della boccheggiante compagnia di bandiera con le debolezze del suo concorrente interno (AirOne) nella brillantissima prospettiva che questo matrimonio di nanerottoli possa reggere economicamente su una rendita di quasi-monopolio nel mercato nazionale. Ma non è nemmeno detto che questa ipotesi di un'Alitalia mignon riesca ad andare in porto.

Innanzi tutto ci vogliono tanti bei quattrini. Qualcuno è disponibile a scucirne un po' anche perché può contare di rifarsi altrimenti. Come il gruppo Benetton, che un debito di riconoscenza con il governo Berlusconi ce l'ha dopo che gli è stata data mano libera sulle tariffe autostradali. O anche il costruttore Ligresti, che un bel po' di appalti per l'Expo milanese dovrebbe ottenerli. Quanto ad altri, in mancanza di tornaconti tangibili, non si va oltre a un obolo di facciata. Certo ci sono sempre le banche, a cominciare da Intesa Sanpaolo che il governo ha messo in mezzo con una procedura fin troppo disinvolta. Ma anche qui c'è un problema: non tutti i consiglieri d'amministrazione pensano che il loro ruolo sia quello di cavare le castagne dal fuoco a Berlusconi a spese degli azionisti.

Tuttavia, anche chi è disposto a metterci del suo pone una pregiudiziale. I privati intendono rilevare solo il poco di attivo che c'è nel bilancio Alitalia. Tutte le passività, debiti ed esuberi di personale devono essere isolati in una cosiddetta "bad company" da lasciare alla mano pubblica: ovvero, in forma diretta o indiretta, a carico dei contribuenti. Si capisce bene che a Palazzo Chigi stiano prendendo tempo. Dopo tutto Silvio Berlusconi si è fatto votare proclamando che non avrebbe mai messo le mani nelle tasche dei cittadini: aggiungere ulteriori esborsi pubblici ai 300 milioni del prestito di primavera sarebbe davvero una diabolica beffa, in primo luogo per i suoi elettori.

Un'altra ragione di grave imbarazzo del presidente del Consiglio riguarda il fronte sindacale. Con le sparate contro Air France Berlusconi ha illuso i lavoratori di Alitalia che la sua cura sarebbe stata meno cruenta di quella dei francesi. Così non è: secondo i progetti dei sedicenti patrioti, gli esuberi potrebbero essere anche quasi il doppio. E ciò spiega perché questo piano di salvataggio potrebbe essere annunciato soltanto a fine agosto: i capitani coraggiosi di Palazzo Chigi non hanno l'ardire di mettere le carte in tavola perché vivono nel ben fondato terrore degli scioperi che paralizzerebbero i cieli italiani nel bel mezzo di Ferragosto. Così, in un misto di grande pavidità e piccole furbizie, l'ultimo atto della tragedia Alitalia, cominciato con l'annuncio che perfino i figli del premier avrebbero messo i soldi di casa a disposizione, si avvia verso l'epilogo più spudorato: il conto delle guasconate del Cavaliere a carico di Pantalone.

(30 luglio 2008) da Repubblica.it


Leggi anche: Besame Chitarrino - da Ora d'Aria di M.Travaglio, 30/07/08

lunedì 28 luglio 2008

Bossi e Barbarossa

di Francesco Merlo

Bossi che spiega la storia agli storici e ispira e orienta una fiction storica della Rai può persino suscitare ammirazione, la stessa che suscitano gli acrobati, o quelli che corrono senza gambe, o ancora certi geniali imbonitori dei mercati del Sud ai quali l'Umberto sempre più somiglia anche fisicamente, quelli che vendono orologi patacche "che segnano le ore di tutti e sette i continenti: Palermo-Roma-Tokio".


Sicuramente adesso meglio si capisce perché i leghisti vanno a testa bassa contro i saperi accademici, contro i professori e ovviamente contro l'alfabeto. Considerano infatti "la cultura italiana" la loro vera antagonista. E le contrappongono una università a prezzi bassi e a poca fatica, a diti medi e a insulti sbavati, di cui Bossi è il rettore magnifico, le aule sono al bar, le ore di insegnamento e di elaborazione sono quelle delle pause pranzo, e la rivista scientifica di riferimento è l'autorevolissima Tv Sorrisi e Canzoni.

A questa versione padana della famosa 'Theory and History' lo statista imperial comunal Umberto Bossi ha dunque affidato le sue riflessioni su Alberto da Giussano del quale dice di essere la reincarnazione metempsicotica mentre l'odiato Barbarossa "oggi è lo Stato italiano", vale a dire - aggiungiamo noi - Bossi stesso, che ne è ministro. Nessuno infatti gli ha ancora spiegato che lo Stato è l'insieme dei ministri, di tutti quelli che amministrano, in nome del bene pubblico, gli spazi sociali.

Comunque sia, Bossi ha spronato alla 'padanerià militante - vale a dire a portare sullo schermo la ribellione contro la schiavitù all'Italia - i tecnici, gli attori e i registi del Barbarossa, la prima fiction di ispirazione bossiana, mostrandosi orgoglioso che finalmente la Rai riscriva o meglio scarabocchi la storia come vuole il catechismo leghista. Ed è una prostituzione intellettuale che mai era stata esercitata così in ginocchio, un vero 'monicalevinskismo' culturale al quale non era mai arrivata né la Rai della Dc e delle censure né quella ideologicamente piegata a sinistra di Tele-Kabul e poi del politicamente corretto. Davvero con le fiction di partito i dirigenti della Rai raschiano il fondo della volgarità spartitoria ma anche della stupidità culturale.

E bisogna infatti dire che il primo a ridere del Bossi colto, a riderne a crepapelle, (e ovviamente a bocciargli il figliolo e quella sua ormai famosa tesi scolastica sul federalismo di Cattaneo) sarebbe stato lo stesso Cattaneo che si batteva "per la Nazione delle intelligenze la quale abita tutti i climi e parla tutte le lingue", tranne quella sguaiata del geniale saltimbanco padano. Mentre Alberto da Giussano, che aveva bisogno di menti sane e corpi robusti, di guerrieri responsabili e non di fantasmi, avrebbe avuto pietà di lui e lo avrebbe mandato nelle retrovie affidandogli l'intrattenimento comico del popolo in armi contro il Barbarossa.

Al contrario la Rai, che - vale la pena ripeterlo - mai era stata così pacchianamente e miserabilmente partitocratica, invece di consegnarli una sezione del cabaret politico magari in concorrenza con Grillo, gli ha affidato quell'università popolare che è la fiction in costume, il romanzo storico alla Manzoni o alla Walter Scott.

E tutti capiscono che solo in Italia uno dei tanti ignoranti di talento, il Celentano dello Stato, può produrre storiografia e spiegare a tutti gli storici, da Gioacchino Volpe a Delio Cantimori, e ovviamente ai grandi medievisti Cardini e Le Goff chi era veramente Alberto da Giussano e quanto ce l'aveva duro, e chi era veramente Federico Barabarossa e quanto ce l'aveva moscio; e poi i comuni, il Papa, i guelfi e i ghibellini...

Ma il paradossale mistero rivelato dalla fiction sul Barbarossa non è che la Lega pensi che l'università sia un covo di boiardi e neppure che la Rai abbia oltrepassato i limiti della dignità e nemmeno che Bossi eserciti la sua proverbiale fantasia imbrogliona. Ciò che rimane ancora incomprensibile è perché i famosi imprenditori del Nord debbano sopportare una simile rappresentanza culturale di se stessi.

Davvero per difendere gli interessi economici della cosiddetta borghesia settentrionale bisogna mettere in piedi questo teatrino dei pupi? Perché l'imprenditore veneto deve avere come intellettuale organico un piazzista politico, un uomo senza professione, un geniale pataccaro? Perché una della grandi borghesie regionali d'Europa, che pure ha prodotto la migliore cultura d'Italia, deve permettere che il suo immaginario intellettuale e storico si popoli di queste fetecchie, di questa monnezza che puzza molto più di quella di Napoli? Ecco dove sta nascosta la verità di questo Barbarossa televisivo e del Bossi che ha scoperto - nientemeno - la storia.

(28 luglio 2008) da Repubblica.it

domenica 27 luglio 2008

Non aprite quella porta

di Furio Colombo

Dichiarano lo stato di emergenza nazionale all’improvviso, con frivola incompetenza e salda fede leghista.
Pretesto: una invasione di immigrati (succede sempre d’estate, con il mare calmo) che tormenta sempre la fantasia malata della Lega Nord e del ministro Maroni, uno che ha giurato fedeltà alla Lega prima che alla Repubblica italiana. Realtà: poter disporre del diritto di arresto, deportazione, creazione di nuovi campi, forse intenzione di fermare in mare le imbarcazione disperate. Come vedete un’emergenza c’è ed è per quel che resta di civile, di umano, di democratico nell’Italia governata da Berlusconi.
Non è solo un brutto film quello che stiamo vivendo e di cui siamo quasi tutti comparse. È anche un film fuori sincrono, nel senso che sono oscure le parole, sono oscuri i fatti. Ma anche così, anche a condizioni minime di rappresentazione e narrazione della realtà, viviamo in un pauroso fuori sincrono. È l’effetto che certe volte accade, con disorientamento del pubblico, nella proiezione di un film: colonna sonora e immagine non corrispondono. Il risultato è: guardi la scena e non riesci a credere né alle parole né alle immagini. Per esempio, un ministro della Repubblica, titolare di una funzione chiave nel governo italiano (ministro delle Riforme) dedica gesti e parole volgari a un simbolo istituzionale (l’inno della Repubblica italiana) denigra in modo stupido gli insegnanti italiani del Sud (uno di loro è accusato di avergli bocciato il non geniale figlio), ma soprattutto pronuncia queste parole: «Contro la canaglia romana quindici milioni di uomini del Lombardo-Veneto sono pronti a farla finita». In altre parole un ministro della Repubblica, eletto con voti secessionisti e portato a Roma da un premier senza scrupoli, a cui conviene la confusione che copre l’illecito, parla da secessionista con l’autorità di Ministro del Paese che occupa e disprezza, e con cui intende «farla finita». È lo stesso ministro-chiave insediato nella capitale italiana ma capo di una forza violentemente anti- italiana, che pochi giorni prima incitava la nazionale di calcio della «Padania» nel «campionato degli Stati non riconosciuti».

La Padania è infatti uno di quegli Stati. “Non riconosciuti” vuol dire non ancora liberi. Infatti, in quella occasione il grido di Bossi era un rauco “Padania” al quale la sua folla doveva rispondere con l’urlo “Libera”. Una manifestazione secessionista da fuori legge, e certamente incompatibile con l’immagine, benché logora e screditata, di Ministro della Repubblica. È chiaro a tutti che si tratta di un gesto pericoloso contro il quale, ti immagini, si rivolta con indignazione la classe dirigente di un Paese. Sono questi i casi in cui si può verificare un serio e vero sentimento trasversale di condanna, di presa di distanza, di separazione da una visione così bassa e così irresponsabile della vita pubblica italiana da parte di un garante (un Ministro importante) della vita pubblica italiana. Dopo tutto si tratta della stessa classe dirigente occupata per una decina di giorni in una staffetta di condanne esterrefatte e continue dedicate all’ormai celebre «delitto di piazza Navona», rispetto a cui impallidiscono altri fatti- pur duri- della cronaca nera italiana. Ma in piazza Navona affermazioni immensamente discutibili (che personalmente ho scelto di respingere subito) erano state fatte da due comici, celebri e popolari, certo, ma liberi da responsabilità istituzionali. Eppure non c’è confronto. Entro giorni due (due) i più autorevoli giornali e telegiornali italiani potevano scrivere e dire «archiviata la questione Bossi». Archiviata quando, da chi? E come è possibile che si sia rapidamente condonato come «colore» il gesto volgare contro l’istituzione e l’appello alla rivolta da parte di un Ministro della Repubblica?
* * *
«Archiviato» anche il problema giustizialista (ovvero di implacabile persecuzione delle compatte forze giustizialiste) di Silvio Berlusconi. Sentite il titolo (un titolo esemplare ma certo non il solo): «Tolto il macigno giustizia, niente più alibi per le riforme» (ilMessaggero, 24 luglio). Un intervistato del “Giornale Radio 3” (ore 8.45 del mattino del 23 luglio) ci spiega anche meglio: «È venuto anche meno l’alibi dell’antiberlusconismo giudiziario». Come dire: chi, d’ora in poi, si sottrae a un fitto e proficuo dialogo sulle riforme, non ha ragioni e indignazioni da invocare, perché il grande imputato non ha più problemi con la giustizia. Ognuno di quei problemi, compreso il processo Mills, con la pesante imputazione di corruzione giudiziaria, è stato allontanato da Berlusconi con una legge fatta per Berlusconi dall’ex segretario privato di Berlusconi, divenuto Ministro della Giustizia, in consultazione accurata e continua con gli avvocati di Berlusconi. Il quadro è rappresentato con triste umorismo dal vignettista Giannelli sulla prima pagina del Corriere della sera del 24 luglio: Berlusconi, vestito da mago, salta sul collo del Presidente della Repubblica e, profittando di quella elevazione e di quel livello che di suo non possiede, brandisce la bacchetta magica dell’ autoritarismo ormai senza limiti. Immagino la dispiaciuta amarezza con cui il Presidente Napolitano avrà guardato quella vignetta. È ciò che è accaduto: comporre un «pacchetto di immunità» nel quale il più onesto e disinteressato degli italiani (vedere la sua vita, prima ancora della sua carica) si trova stretto accanto all’italiano più noto nel mondo per il suo attivo, aperto e smaccato conflitto di interessi nei confronti e a danno dello Stato che governa; e per le sue innumerevoli imputazioni, che hanno indotto la rivista finanziaria inglese “The Economist” ad aprire con il titolo di copertina a piena pagina «Mamma mia!». In altre parole, Berlusconi imputato, per liberarsi dal più rischioso ed imminente dei suoi processi, ha formato una scorta composta dalle tre più alte cariche dello Stato. Due saranno forse state consenzienti, per amicizia o solidarietà o affinità. Ma il capo dello Stato, un uomo che - per esempio - l’opinione politica repubblicana e democratica degli Stati Uniti ha stimato e ascoltato fin da quando era esponente del Partito Comunista italiano, adesso, appare inserito dentro una legge-ricatto. Di essa il Capo dello Stato non ha alcun bisogno a causa delle prerogative istituzionali che disegnano il suo ruolo, al di sopra (ma anche estraneo) rispetto ad ogni altro ruolo. [...]
* * *
Nel frattempo il cielo della Repubblica è solcato da messaggi misteriosi, sullo sfondo di scenari che richiederebbero un libero sistema di informazioni e un sistema politico (Camera e Senato) funzionante. Ma la Camera e il Senato sono l’altro grande ostaggio della paralisi imposta al paese dagli interessi di Berlusconi. Ecco alcune domande che, stranamente, non sono diventate né materiale giornalistico, né spunto per una inchiesta approfondita.
1 - Chi stava parlando con chi, a nome di chi, e a proposito di che cosa, quando all’improvviso è stata lanciata una non credibile, non plausibile accusa a Fassino e a Nicola Rossi? Nel senso tetro della parola, è un gioco. Ma che gioco è, e chi sono i giocatori, e quale è la posta? Proprio perché l’insinuazione appare subito campata in aria, è evidente che si tratta di un imbroglio deliberatamente organizzato, la falsa pista di tutti i thriller . Restano le domande: che si è messo in moto? Perché adesso, in termini tanto pesanti, destinati a provocare tumulto e scandalo ma anche distrazione? È chiaro che tutto è inventato in questa storia. Ma non è una svista. È urgente decrittare il gioco, intercettare il percorso, e identificare gli autori. Dopo tutto siamo al centro della più grande vicenda di spionaggio politico mai realizzato con strutture private nel mondo occidentale.

2 - A Napoli è scomparsa la spazzatura. Manca una certificazione indipendente. Deve bastarci la parola? Ma chi si ricorda il numero di migliaia di tonnellate da smaltire dovrebbe esigere di sapere, prima di rendere il dovuto onore al successo: dove è finito l’ammasso di anni e anni di spazzatura nel miracolo della pulizia fatta in soli 80 giorni? Tutto è possibile, ma dove dirci come. Per esempio, dov’è finita la camorra, potente e presente dovunque? Si è arresa, è in ritiro, è in attesa, è in affari (forse altri affari)? Qualcuno vorrà aiutarci a sapere, magari per imparare e ammirare?
3 - Dialogando con Felice Cavallaro del Corriere della sera (24 luglio) Marcello Dell’Utri, ammette e anzi certifica, telefonate e incontri con due malavitosi di chiara fama, Aldo Miccichè, che opera dal Venezuela e si fa sentire con Dell’Utri per telefono, e Antonio Piromalli che, riuscendo a sfuggire alla polizia, fa una scappata nell’ufficio del senatore (13 marzo). Attenzione, non dite che «è il solito Dell’Utri, che tutte queste cose le sappiamo già e non conta più». Dell’Utri, in piena campagna elettorale, ha ricevuto un pubblico, esteso, drammatico elogio di Silvio Berlusconi, forse un vero e proprio messaggio a qualcuno. In quella stessa occasione Berlusconi ha proclamato «eroe» il pluriomicida mafioso Mangano, per molti anni ospite di casa Berlusconi e poi morto in prigione mentre scontava l’ergastolo.
Dell’Utri è tuttora il reclutatore e organizzatore dei giovani del partito (il suo incarico si riferisce a Forza Italia. Sarà stato esteso al partito del Popolo della libertà, dunque aperto ai giovani di An?). Ed è comunque - nell’intervista al Corriere - l’autore della seguente confessione: «Miccichè voleva contattare un azienda di petrolio russa. Io sono molto amico di questi russi. È materia di cui si occupano tutti, pure io. Una cosa normale. Niente di male. Lo stesso Miccichè mi chiese di occuparsi del voto italiano in Venezuela. Io lo misi in contatto con Barbara Contini (ricordate? La “governatrice di Nassirya”, al tempo della morte del caporale Vanzan, ndr) cioè una persona di altissimo livello che coordina questo settore». Dunque un avamposto di potere, di governo, di maggioranza è luogo ospitale di accoglienza e smistamento di persone come Piromalli, di mediazioni d’affari come quella richiesta da Miccichè, ma soprattutto di inclusione rapida del volontario Miccichè nella campagna elettorale e nel partito di Berlusconi, attraverso l’immediata messa in contatto di un celebre e ricercato personaggio (ricercato da molte polizie) che offre affari e politica, con la dirigente («altissimo livello») del partito di Berlusconi Barbara Contini.
È bene tenere presente tutto ciò per sapere in ogni momento perché dobbiamo fare cordone e stare dalla parte del Capo dello Stato. Quando è stato chiesto ad Anna Finocchiaro, «ora che è stata archiviata la questione giudiziaria di Berlusconi, si può ripartire col dialogo?», la senatrice opportunamente ha risposto: «il dialogo non è una porta che si apre e si chiude a piacimento». Ha ragione. Infatti, se la apri e corri il rischio che entrino in scena Miccichè e Piromalli. Anche se non sei giustizialista, la normale prudenza del buon padre di famiglia ti sconsiglia di aprire quella porta.
furiocolombo@unita.it

Livelli essenziali di assistenza? Inutili per il governo

di Paolo Andruccioli

Si comincia dai più deboli: dai malati cronici, dai disabili, dagli indigenti. La linea dei tagli del governo Berlusconi sceglie la sanità “sociale” come banco di prova del ridimensionamento complessivo del welfare. Si comincia a tagliare laddove le spese si ritengono un optional e il sospetto che ci si prepari a un sistema di sanità povera per i più poveri è venuto in testa a molti. Esemplare, sia dal punto di vista più tecnico rispetto alle scelte di policy sociale, sia dal punto di vista politico generale (vedi per esempio le risposte del ministro Sacconi), la scelta di cancellare il decreto varato dal governo Prodi sui cosiddetti Lea, i livelli essenziali di assistenza.

Il decreto varato dopo mesi di lavoro dal governo di centrosinistra di Romano Prodi era stato il frutto di una battaglia anche all’interno dello stesso schieramento di centrosinistra. Durante tutto il periodo del governo si è tentato infatti di arrivare a una definizione generale dei “livelli essenziali delle prestazioni”. L’ex ministro della Solidarietà Sociale, Paolo Ferrero, in ogni convegno, ribadiva che arrivare a una definizione generale di tutte le prestazioni sociali sarebbe stata un’impresa quasi impossibile se non si fosse scelta la strada della gradualità. Il tutto e subito – come è noto – è solo uno slogan, soprattutto quando ci sono di mezzo ingenti finanziamenti per garantire il welfare. Per questo il governo Prodi, alla fine, aveva deciso di partire dai livelli essenziali più essenziali, ovvero quelli sanitari. Il decreto sui Lea era nato da quella esigenza e in pratica introduceva una maggiore garanzia di assistenza ai malati cronici, a cominciare dall'Alzheimer; forniva apparecchi ai non vendenti e alle persone incapaci di parlare; introduceva il riconoscemento sanitario di 109 malattie rare, mentre ampliava i servizi di protesi con l'introduzione di nuovi ausili informatici e rafforzava l'assistenza a domicilio ai malati terminali. Con il decreto Prodi era stato introdotta la gratuità per il vaccino contro il papilloma virus, causa del cancro all'utero.

Tutto questo è ora cancellato. La motivazione del governo è che non c'era la copertura finanziaria per quel decreto, problema che era stato posto anche dalla Corte dei Conti. «Il decreto del governo Prodi era un atto puramente elettorale», ha spiegato con una certa enfasi il ministro del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali, Maurizio Sacconi, che parla di promesse che non si possono mantenere. In realtà il decreto era già in vigore e con le promesse elettorali non aveva nulla a che vedere. Inoltre, come hanno detto tutti i sindacati e le associazioni del Terzo Settore, se esistevano delle difficoltà nell’assicurare la copertura finanziaria, sarebbe stato opportuno aprire un dialogo per arrivare a un compromesso. E invece il governo, com’è nel suo stile, non ha voluto ascoltare nessuno e ha tagliato. Il ministro Sacconi tenta comunque un recupero in extremis, dicendo che le prestazioni, «verranno reintrodotte, ci sta lavorando il sottosegretario Fazio». Ma a oggi tutte quelle prestazioni sono semplicemente cancellate con un colpo di spugna. Non c'erano gli 800 milioni necessari a finanziare gli interventi.

La Cgil protesta e chiede il ripristino del decreto, mentre per l'ex ministro della Salute, Livia Turco, «le risorse c'erano, e sono state stralciate dal governo». Anche i sindacati dei medici protestano. «Prendiamo atto che la legislazione ci è ostile – hanno dichiarato i dirigenti dell'Anaao (medici ospedalieri) - e che le scelte fatte avranno come conseguenza un servizio sanitario più povero con professionisti demotivati. Ma le ricadute ci saranno soprattutto sui cittadini». I medici ospedalieri sono già sul piede di guerra: a ottobre hanno annunciato uno sciopero di tre giorni.

«Questo è un atto di irresponsabilità grave, in particolare nei confronti delle donne e dei soggetti deboli», ha dichiarato Teresa Petrangolini, segretario generale di Cittadinanzattiva. I livelli essenziali di assistenza, aggiunge, «sono fondamentali per garantire l'unitarietà del sistema e dunque, con questo atto, si aggraveranno, di fatto, le disuguaglianze dei cittadini a seconda della regione di residenza.

«Abbiamo ascoltato con estrema attenzione e forte preoccupazione le parole del sottosegretario al Welfare, Ferruccio Fazio, secondo il quale il ritiro dei Lea è stato un atto dovuto». Lo hanno detto le portavoci del Forum del Terzo Settore, Maria Guidotti e Vilma Mazzocco, preoccupate che la «versione più leggera dei Lea che il governo intende presentare a settembre» possa rappresentare «un ulteriore passo verso un sistema di sanità pubblica sempre più privata». Già ora, aggiungono Guidotti e Mazzocco, «non riusciamo a identificare quali possano essere le voci che il sottosegretario ritiene così poco rilevanti da poter essere eliminate nella nuova stesura». Ad ogni modo, concludono le portavoci, «noi ci aspettiamo che i Lea vengano garantiti, che non ci sia un taglio dei diritti, che la riforma dei sistemi di welfare venga definita con le parti sociali e che non ci siano più provvedimenti a carattere emergenziale posti all'ultimo secondo in Finanziaria».

«Dal governo ancora brutte notizie sul piano delle politiche sociali, dalle conseguenze gravissime», ha detto Michele Mangano, presidente nazionale dell’Auser, secondo il quale la revoca dei Lea «rappresenta un’ulteriore mazzata alla sanità pubblica. Un bel regalo estivo agli italiani soprattutto a coloro che si trovano in condizioni di disagio e fragilità». E oltre al taglio dei Lea, il governo prepara tagli ai posti letto negli ospedali, la diminuzione degli organici, blocco del turn-over e nessun futuro per 12.000 precari che lavorano nelle strutture ospedaliere, tagli ai fondi destinati alla sanità, perché il Patto per la salute, sottoscritto con le Regioni, è stato ridimensionato

giovedì 24 luglio 2008

Incontri segreti e voti promessi

Incontri segreti e voti promessi il pressing dei clan su Dell'Utri

Il porto di Gioia Tauro

REGGIO CALABRIA - È la trama della 'ndrangheta che vuole liberarsi dalle catene del 41 bis. Una ragnatela che dalla piana di Gioia Tauro si spande a Roma, si infiltra nei ministeri, raggiunge i bracci delle sezioni speciali delle carceri italiane. Promesse di voti, mosse e contromosse per convincere quei deputati o senatori che "possono fare qualcosa", ricatti, maneggi per ottenere immunità diplomatiche, spiate di magistrati.

Non si fermano davanti a niente e a nessuno i capi della 'ndrangheta pur di diventare dei detenuti come tutti gli altri. I personaggi di questo intrigo sono i Piromalli e i Molè, forse i "capibastone" più potenti della Calabria. In una retata che da queste parti ha pochi precedenti per "portata" investigativa - è anche la prima grande operazione firmata dal nuovo procurarore di Reggio Giuseppe Pignatone - la squadra mobile e i ros dei carabinieri hanno decimato con 18 fermi i vertici di due cosche che erano state solo sfiorate dalle investigazioni negli anni passati. Le "famiglie" che soffocano il porto di Gioia Tauro, quelle che come dice uno dei boss catturati "hanno insieme cent'anni di storia".

Sono loro, i Piromalli soprattutto, che in giro per l'Italia hanno sguinzagliato avvocati e compari e consigliori per agganciare il senatore Marcello Dell'Utri e l'ex ministro della Giustizia Clemente Mastella. Il primo ha ricevuto quei "calabresi" in almeno in due occasioni (alla vigilia delle ultime elezioni politiche), il secondo ha chiuso ogni contatto con loro dopo la prima telefonata. "Maledetto 41 bis, sto tentando di tutto, voglio percorrere una strada segretissima anche al Vaticano", sibila uno di loro al telefono. E poi dice: "Ho cercato anche con la massoneria, per quanto riguarda eventualmente l'intervento di un giudice molto importante".

È alla fine dell'anno scorso che i Piromalli decidono di muovere tutte le loro pedine. È il 3 dicembre del 2007 quando dalla Calabria organizzano per Antonio Piromalli e per il suo amico Gioacchino Arcidiaco (entrambi arrestati nella retata di martedì scorso) un incontro con Marcello Dell'Utri. Dal senatore di Forza Italia vogliono procurare una sorta di immunità attraverso il conferimento di una funzione consolare. Una qualsiasi. Vogliono mettere al sicuro Antonio, il rampollo della "famiglia" con un passaporto diplomatico. In cambio offrono voti e si mettono a disposizione per i "circoli" del senatore nel territorio di Gioia Tauro. Prima di contattare Dell'Utri Arcidiaco chiede ad Aldo Micciché, un ex dc della Piana riparato in Venezuela per sfuggire a grossi guai giudiziari in Italia: "Come mi devo proporre a lui?".

Gli risponde Micciché da Caracas: "La Piana è cosa nostra facci capisciri (fagli capire, ndr), il porto di Gioia Tauro l'abbiamo fatto noi. Fagli capire che in Aspromonte e tutto quello che succede là sopra è successo tramite noi". E ancora: "Ricordati che la politica si deve saper fare. Ora fagli capire che in Calabria o si muove sulla Tirrenica o si muove sulla Ionica o si muove al centro, ha bisogno di noi. Hai capito il discorso? E quando dico noi, intendo dire Gioacchino e Antonio (Piromalli, ndr), mi sono spiegato? Spiegagli chi siamo, che cosa rappresentiamo per la Calabria... io gli ho già detto tante cose". Gli ribatte l'altro: "Gli dico: ho avuto autorizzazione di dire che possiamo garantire per Calabria e Sicilia".

Dopo un primo incontro il 3 dicembre a Milano fra Gioacchino Arcidiaco e Marcello Dell'Utri (c'è con loro l'avvocato di Genova Francesco Lima), ce n'è un secondo a Roma tre giorni prima delle elezioni politiche del 13 aprile. L'inchiesta sta ancora scavando fra i retroscena di quei faccia a faccia, il senatore Dell'Utri sarà ascoltato come testimone.

Gli emissari della 'ndrangheta si sono mossi anche su altri fronti per provare ad avere uno "sconto" sul carcere duro. Contattano una persona - "un mio compare", dice Micciché - vicina al senatore Emilio Colombo, vengono costantemente informati che molti dei loro telefoni sono intercettati - "c'è tutta la rete sotto controllo" - , fanno cenno "a un amico a Palazzo dei Marescialli", ricevono soffiate da due famosi magistrati in pensione di Reggio. Incontrano. Parlano.
Garantiscono.

È sempre Aldo Micciché che informa i Piromalli. Una volta racconta che il deputato dell'Udc Mario Tassone si sarebbe "messo a vostra completissima disposizione" e "che tira aria di elezioni e diventerà il segretario del partito al posto di Lorenzo Cesa", un'altra volta ricorda che anche "il consigliere regionale Gianni Nucera li aspetta a braccia aperte per tutto quello che avete bisogno". Poi si agita per Veltroni che in comizio ha detto di non volere i voti di mafia: "Avete capito il discorso? Quelli hanno respinto ogni forma, ogni cosa".

Il vecchio Giuseppe Piromalli nonostante le tante "amicizie" è però sempre in una cella, isolato nel carcere di Tolmezzo. È a quel punto che Aldo Micciché tenta di "avvicinare" il Guardasigilli Mastella. Il ministro riceve una telefonata sul suo radiomobile il 7 dicembre 2007, in un primo momento non risponde a quel numero sconosciuto ma poi richiama. Sente una voce, quella di Micciché: "Clemente mio, meno male. sto cercando di fare il possibile per aiutarti. Vediamo se recuperiamo sul Lazio e su Roma. ti mando Francesco Tunzi, già hai conosciuto anche altri amici. Noi e nostri". Appena riconosce l'interlocutore che accenna a possibili aiuti elettorali, il ministro interrompe la comunicazione. Ma i boss della già da mesi si aggiravano intorno al ministero della Giustizia.

Cercavano un varco. È sempre la condizione carceraria di Giuseppe Piromalli a impensierirli. Riferiscono al figlio Antonio: "Tuo padre è esasperato, e lo diventa ancora di più quando gli vengono toccate le cose di cui necessita di più, cioè la corrispondenza... gli stanno controllando pure i peli".

È ancora Aldo Micciché che comunica al figlio del boss: "Sia Antonella Pulo, sia la Zerbetto e sia Francesco Borromeo mi hanno fatto capire che tenteranno di fare quello che. sottobanco devono farlo, perché tu sai che c'è stato un irrigidimento dopo gli avvenimenti che tu sai". La prima - Antonella Appulo - è stata identificata come un'esponente del movimento giovanile dell'Udeur. La seconda - Adriana Zerbetto - era la segretaria del ministro della Giustizia. Il terzo - Francesco Borgomeo - era a capo della sua segreteria. Millanterie dell'uomo di Caracas? È un altro dei filoni investigativi ancora in corso di approfondimento.

Comunque è lo stesso Micciché che urla un giorno al telefono: "Sto cazzo di ministro non si può muovere in nessun modo. Devo fare un'altra strada perché è già quasi arrivato il giorno. Sennò siamo fottuti". Il giorno che avrebbero dovuto confermare il 41 bis a Giuseppe Piromalli. I boss parlano a ruota libero, tranquilli, forti del loro "servizio informativo" È Arcidiaco che per una volta avverte Aldo Micciché: "Praticamente ieri ci hanno chiamato e ci hanno detto che due settimane fa hanno tappezzato la macchina di mio cugino Antonio dell'ira di Dio".

Pensano di poter dire tutto su altri telefoni, si sentono "protetti". Aldo Micciché si lascia sfuggire: "Ho ricevuto una telefonata da Reggio da persone che nemmeno ti immagini, molto, molto in alto. Dobbiamo stare molto attenti. Lo sai chi è Peppe T. o Peppe V., sai chi sono questi, sono gente legata a mani piedi culo e poi c'è l'altro personaggio importantissimo". Tutti magistrati. Amici di altri magistrati. Amici dei boss della 'ndrangheta.

(24 luglio 2008), di Attilio Bolzoni, Repubblica.it

La separazione delle carriere

Berlusconi ha detto che deve riformare la giustizia “ab imis” e che la “separazione delle carriere” non gli basta. Ma che cosa è questa “separazione delle carriere”?

In breve si tratta di questo: nel processo penale accusa e difesa debbono diventare parti che operano su un piano di parità; uno accusa l’imputato e l’altro lo difende; uno raccoglie le prove che provano la colpevolezza e l’altro quelle che provano l’innocenza; e tutti e due smontano le prove dell’altro come meglio possono. Sopra di loro sta il Giudice “terzo e imparziale” che deve stabilire chi tra i due ha torto o ragione. Ne consegue che, anche se l’accusa è sostenuta da un magistrato, il Pubblico Ministero, questo deve essere diverso, appunto “separato”, dal suo collega che fa il Giudice: e, per ottenere questo obbiettivo, l’unica soluzione è quella di prevedere per i magistrati due carriere separate; quella del Giudice e quello del Pubblico Ministero; e nessuno deve poter passare da un ruolo all’altro.

Si tratta di una sciocchezza; ed è facile capirne il perché: il PM tutela gli interessi della collettività, l’avvocato quelli del suo cliente. Per il PM non è importante che l’imputato venga condannato; è importante che il colpevole venga condannato. E quindi, se l’imputato non è colpevole (perché le prove raccolte contro di lui si rivelano non convincenti, insufficienti, contraddittorie) il PM ha l’obbligo di chiedere che venga assolto. In realtà, al di là dell’obbligo, al PM non salta nemmeno in testa di chiedere la condanna di un imputato che ritiene innocente o per il quale le prove raccolte gli sembrano insufficienti. Alla fine, nel PM, si riassume il ruolo di accusatore e difensore: egli cerca di capire se l’imputato è colpevole o innocente; e, quando crederà di aver capito (perché sempre di giustizia umana si tratta) chiederà al Giudice la condanna o l’assoluzione.

L’avvocato difensore, lui si, è uomo di parte; nel senso che egli ha un obbligo ben preciso: far assolvere il proprio cliente oppure, alla peggio, fargli avere la pena più ridotta che sia possibile. Per capire bene questa differenza (che però è talmente ovvia da non meritare commenti) basta un esempio: se un PM sa che è possibile acquisire una prova che dimostra l’innocenza dell’imputato, la deve acquisire; se un avvocato difensore sa che esiste una prova che dimostra la colpevolezza del suo cliente, deve (proprio deve) evitare (con mezzi leciti si capisce, ma qui il discorso si fa lungo e complicato) impedire che venga scoperta.

Insomma, non è vero che PM e avvocato sono due soggetti animati da interessi contrapposti: il PM può trovarsi dalla stessa parte dell’avvocato. E non è vero che hanno un ruolo processuale paritario: il PM difende un interesse pubblico - l’identificazione e la punizione del colpevole, chiunque esso sia -; l’avvocato difende un interesse privato - l’assoluzione del suo cliente, anche se colpevole -.

Ma allora perché….?
Le ragioni sono sostanzialmente due.

La prima: gli avvocati soffrono questo loro ruolo di esperti prezzolati; non gli piace questa figura di uomo di parte, sostenitore di interessi precostituiti, da far prevalere anche se infondati; sono a disagio, tanto più se sono persone di valore, quando debbono ricorrere ad argomenti che loro per primi sanno essere infondati; soffrono questa schizofrenia legale per la quale, come cittadini (e ancora di più come tecnici del diritto) sono consapevoli della colpevolezza del loro cliente e come avvocati debbono nasconderla, cercando di ottenere una sentenza che, per primi, sanno essere ingiusta. E, in questa situazione, sentono l’handicap di doversi confrontare con un soggetto, il PM, che non ha di questi problemi; che può sostenere in buona fede (che non vuol dire con ragione) qualsiasi tesi, che ha la libertà di una coerenza intellettuale che loro non possono permettersi. Da qui la necessità di sminuire il loro avversario; di ridurlo a qualcosa di simile a loro; di obbligarlo ad un ruolo partigiano opposto al loro: tu accusi, io difendo; e vinca il migliore.

Insomma, il processo come competizione sportiva; con un arbitro, il giudice, che deve solo sorvegliare che le regole del gioco vengano rispettate; e che deciderà quale dei due contendenti ha segnato più punti. Ma naturalmente il processo non è una partita di calcio. La responsabilità penale non può essere il risultato di una gara a chi è più bravo, accusatore o difensore. Il processo (giusto, quello che garantisce davvero il cittadino, non il cosiddetto giusto processo di cui straparlano i nostri politici) necessita di un’indagine preliminare seria e obbiettiva, di un investigatore che non abbia pregiudizi, di un PM pronto a cambiare idea ad ogni momento, di un collaboratore del Giudice nell’accertamento della verità. E necessita anche di un difensore che stimoli il PM, lo tormenti, lo costringa ad approfondire, a non trascurare nulla, ad indagare fino in fondo: perché condannare una persona è una cosa grave; e bisogna essere sicuri (quanto si può, sempre in questo mondo e non in quello divino viviamo).
Ma tutto ciò, come ho detto, non fa proprio piacere agli avvocati.

La seconda ragione:
Se il Pubblico Ministero non è più un Giudice ma una parte, come un qualsiasi avvocato, allora deve avere un datore di lavoro; proprio come un avvocato. E chi sarà questo datore di lavoro? Ma lo Stato, naturalmente, proprio come in quasi tutti gli altri Paesi occidentali. E che fa il datore di lavoro? Ordina. Stabilisce quello che il dipendente deve fare e quello che non deve fare, come lo deve fare, quando lo deve fare, fino a che punto lo deve fare. E che farà questo PM posto agli ordini dello Stato (dunque del Governo, chi “gestisce” lo Stato è il potere esecutivo)? Farà i processi che il Governo gli permette di fare; non farà i processi che il Governo non vuole che siano fatti. Peggio, qualche volta gli capiterà di dover fare i processi che il Governo gli ordina di fare. Fuor di metafora, farà i processi per rapina, omicidio e spaccio di droga, insomma quelli che non interessano la classe dirigente; e invece, per restare alla cronaca recente, non farà i processi contro Mastella e i suoi amici o contro Del Turco e compagnia bella; né naturalmente quelli contro Berlusconi. E forse gli capiterà anche di fare qualche processo contro un avversario politico della maggioranza che è al Governo.

Forse, se i cittadini sapessero cosa significa davvero la “separazione delle carriere” avrebbero un quadro più chiaro di come la classe politica interpreta l’art. 3 della costituzione, quello che dice che tutti i cittadini sono eguali davanti alla legge.

Bruno Tinti (dal blog Toghe Rotte)

mercoledì 23 luglio 2008

La bella tv dell'estate


Che l'estate televisiva raggiunge il suo vertice di delirio creativo lo capisci quando su un palco issato su una piazza di paese vedi tutti insieme il crine selvatico di Massimo Giletti, ballerine che s'agitano volteggiando con un pupazzo di neonato in braccio, cantanti pop ultrasiliconate inneggiare all'Altissimi puntando letteralmente il ditino verso l'alto e vario notabilato locale che parla della "spiritualità" delle proprie terre. Ebbene sì, è la nona edizione dello spettacolo benefico "Una voce per Padre Pio", dove - dopo Little Tony che fa la mossa alla Elvis (con la differenza che quello cantava My Way e questo ulula in playback una strapazzata melodia straitaliana) - viene proposta in prima serata, davanti a vari milioni di spettatori superstiti, di cui molti ipotetici pagatori di canone Rai, un nuovo straziante "evento prodigioso" ad opera del Santo dalle sanguinose stimmate: c'è un signore, oggi sessantenne, che quando era bimbetto guarì d'improvviso da una malattia fulminante, nello stupore generale. Perché? Ovvio: perché il papà del medesimo aveva tenuto una fotografia di Padre Pio sotto il cuscino. "Solo la Chiesa potrà stabilire se questo evento potrà effettivamente essere considerato un miracolo", s'impone di aggiungere dall'alto della sua sgargiante cravatta il Giletti, bontà sua, massima espressione di laicità televisiva nell'anno domini 2008.

Lasciamo stare che avevamo appena terminato di vedere le aspiranti "Veline" - ragazzine scosciate obbligate a fare prove demenziali di fronte ad un numero ancor maggiore di ascoltatori - lasciamo stare che in contemporanea Gasparri chiamava "cloaca" il Consiglio superiore della magistratura, dimentichiamo le previsioni della Coldiretti che ci annuncia che le scorte di pane tra qualche mese potrebbero terminare (facendoci rimpiombare in uno scenario da dopoguerra), lasciamo perdere il crollo dei salari, l'assalto ai principi costituzionali, il rispolvero razzista delle impronte digitali... quel che la televisione preferisce raccontarci come cosa praticamente indubitabile è che ci sono i miracoli. Signore attempate che tengono in mano il loro santino consunto dal tempo, racconti vividi di medici increduli che corrono inutilmente su e giù (la scienza) e del sorriso del medesimo santo che dà un buffetto al bambino una volta riportato alla vita dopo una dura battaglia contro le forze del Male (la Verità)... il tutto certissimo e indiscutibile (a parte l'obbediente accenno del fascinoso conduttore all'autorità della Chiesa), il tutto condito con qualche rimasuglio dei peggiori Sanremo della nostra vita, con ballerine improbabili, con una manciata di politici locali in prima fila (cosa abituale nel nostro paese, sempre rimasto feudale) e con una squadriglia di preti che ci parlano di come il petto del santo di cui sopra fu trapassato da una sorta di lama proprio come capitò a Gesù sulla croce. Sì, si sa, è un elemento tragicamente moderno il connubio tra spettacolo e miracolistica, come insegnano le televisioni via cavo dei predicatori americani alla Benny Hinn, grandi scenari, denaro a fiumi, preghiere e raduni da stadio, immaginario ultrakitsch per un pubblico ultrapopolare, guarigioni fulminee da malattie spaventose, folle adoranti... Solo che quello è un canale satellitare (Trinity Broadcasting Network, che in chiaro potete vedere anche su Teletevere), questo è il primo canale della televisione pubblica (immaginario ultrakitsch e promesse mirabolanti, plauso delle folle, nani e ballerine? Sì, ricorda vagamente la comunicazione politica di Re Silvio IV...).

Poi, come capita sempre in questi casi, è pure vero che lo spettacolo abbia in sé tutte le stimmate (scusate la metafora) della comicità: dalla conduttrice, la ex cantante Tosca d'Aquino, che chiama "Little" il celebre emulo di Elvis, come se "Tony" fosse il suo cognome, al Giletti che s'aggira tra i monumenti di Petrelcina con aria quantomai ispirata, e per non farci mancare nulla le truci immagini della riesumazioni del corpo di Padre Pio seguite dall'ululato della cantante Mietta. E' così che la televisione si dice "servizio pubblico": tra vagonate di pubblicità altrettanto miracolistica, efferati delitti dove le vittime innocenti vengono ulteriormente vampirizzate fin nell'intimo più intimo e così il dolore dei loro familiari, ennesime puntate di serate vespesche dedicate ai palpitanti amori, repliche infinite di sceneggiati con carabinieri simpaticissimi e poliziotti tutti d'un pezzo. Fa impressione che nel frattempo il Garante si risvegli dal torpore e dichiari, col caldo che fa, che la Rai debba essere liberata "dalla morsa dei partiti", senza essersi accorto, nel frattempo, di quanto, a giudicare dalla tv, si sia spostato il senso comune. Niente paura, nel frattempo abbiamo un'altra piazza estiva in prima serata sul canale numero uno, altre conduttrici dal seno vibrante e dalla chioma vaporosa, altri cantanti, altri miracoli (o miracolati), tra i quali svetta il mitico cantore del Grande Capo, l'indomito Apicella dall'ugola verace come la pummarola, segno oramai temiamo indelebile degli oscuri tempi che viviamo.

di Roberto Brunelli

leggi anche "Una mattina mi son svegliato" di G.Sestini - Micromegaonline

mercoledì 16 luglio 2008

L'ossessione di Luigi XVI


di Alexander Stille
la Repubblica, 14 luglio 2008

Che peso dare all'ultima tornata di scandali, un turbine di intercettazioni, voci, pettegolezzi piccanti? Sarebbe facile liquidarli come giornalismo scandalistico, sensazionalismo o una questione di stile e buon gusto: Sabina Guzzanti ha esagerato con quell'appellativo riferito alla Carfagna? Per Berlusconi non è che gossip e spazzatura. Però spulciando con attenzione il caos di rivelazioni e frammenti di informazioni e intercettazioni, si scopre tutta una serie di problematiche fondamentali. identificative dell'Italia di oggi, che riguardano lo stato di diritto, la responsabilità del potere.Ma anche gli infiniti conflitti di interesse creati dalla presenza di Berlusconi in politica, e il quadro della vita politica nazionale di un grande paese ridotta ad estensione del potere personale di un singolo individuo. In un editoriale stranamente rivelatore, Vittorio Feltri, direttore di Libero, ha scritto: «Silvio non aver paura, anche il duce ci dava con le donne, abbiamo bisogno di un premier, non di un frate». In realtà le troppo generose elargizioni in potere e in denaro alla famiglia di Claretta Petacci preoccuparono molti fascisti e non vennero rese pubbliche, esempio perfetto dell'arbitrarietà e della assenza di responsabilità vigenti sotto una dittatura personale.

Tanto per cominciare le intercettazioni, comprese quelle "piccanti" di cui non si fa che parlare, nascono da un fatto di estrema gravità: i rapporti scorretti tra Agostino Saccà, responsabile di Rai Fiction e Berlusconi nel suo ruolo di proprietario di Mediaset, principale concorrente della Rai. Saccà è stato indagato sulla base di prove indicanti che sfruttava la sua posizione in Rai per creare una società di produzione indipendente, che sperava di promuovere garantendo favori a Berlusconi. In realtà Saccà corteggiava Mediaset sia come possibile investitore per la sua nuova società che come fonte di redditizi contratti cinematografici. Berlusconi, da parte sua sollecita a Saccà favori di ogni genere. In un caso Berlusconi chiede esplicitamente che Saccà ingaggi un'attrice in rapporti sentimentali con un senatore del centrosinistra per conquistarne l'appoggio e far cadere il governo Prodi. Il fatto che il governo Prodi sia poi caduto per altri motivi è ininfluente. Ringraziando Saccà per i numerosi piaceri, Berlusconi, stando a quanto riportato, ha detto: «Ti contraccambierò quando sarai libero imprenditore».

Questo è l'esempio perfetto di quel conflitto di interesse che molti di noi paventarono nel momento in cui Berlusconi entrò in politica: l'uso del grande potere che gli deriva dalla ricchezza per distorcere la funzione di governo, per corrompere un funzionario pubblico affinché si presti ai suoi fini invece di fare il proprio dovere. L'ammissione da parte di Berlusconi che il fine era far cadere un governo con mezzi impropri basterebbe da sola, in un paese normale, a escludere Berlusconi dalle cariche pubbliche, ma gli italiani, sordi al problema del conflitto di interessi, ancora una volta si sono fidati, fiduciosi che avrebbe anteposto il progresso del paese agli interessi personali, fiducia che alla luce di una serie di leggi ad personam e dell'attuale pasticcio si è dimostrata per l'ennesima volta illusoria. Eppure l'incapacità di Berlusconi di distinguere il confine tra le sue aspirazioni personali e il bene del paese è elemento fondamentale della sua identità, il codice alla base del suo Dna politico.

Torniamo un attimo alle origini della soap opera che ha per protagonista Mara Carfagna: Berlusconi in Tv dichiara esplicitamente il suo interesse sessuale per lei: «Se non fossi già sposato, la sposerei subito». In ultima analisi non è importante se Berlusconi sia riuscito nei suoi intenti, e se la Carfagna sia una delle donne delle intercettazioni. In una democrazia normale, ci si aspetta che l'incarico di parlamentare o di ministro sia assegnato a persone di grandi qualità (non direi le più qualificate, la politica è politica ovunque), ma è logico attendersi un altissimo livello di professionalità. Candidare al Parlamento e assegnare un ministero ad una trentaduenne ex pin-up la cui principale qualifica è chiaramente l'attrazione sessuale del premier nei suoi confronti significa farsi beffe del concetto di governo rappresentativo. Per la parlamentare accettare un ruolo di potere dopo esser stata corteggiata apertamente in televisione significa sacrificare ogni diritto alla privacy. Introdurre la propria vita sessuale nella sfera pubblica è una caratteristica saliente del politico Berlusconi. «Ho avuto una fidanzata turca», dice di fronte ad una delegazione turca. Fa battute sull'avvenente premier danese e la moglie Veronica. Si vanta con la stampa francese delle sue amanti d'oltralpe. Dice di essersi sacrificato a fare il dongiovanni con il primo ministro finlandese, una donna bruttina. Parla con gli investitori a Wall Street delle "belle segretarie". Nell'ultima campagna sbandierava la maggiore avvenenza delle donne del Popolo della Libertà rispetto a quelle del centrosinistra. E commentando la percentuale di donne presenti in lista nella sua coalizione non ha potuto evitare di sottolineare che «Portiamo in Parlamento il 30 per cento di donne e si scatena la corsa a dire che sono fidanzate mie e di Gianfranco. Siamo superman, ma certi traguardi sono impegnativi anche per noi». Intenzionalmente portava a pensare che sì, con qualcuna forse era andato a letto, ma non con tutte.

Fa scalpore per un attimo che nel press kit della Casa Bianca, anche sotto l'amica amministrazione Bush, ci si riferisca a Berlusconi poco rispettosamente come a un "politico dilettante" in un "paese noto per la corruzione". Ma è segno della profonda mediocrità e del provincialismo dell'Italia di Berlusconi in cui grazie a una stampa ampiamente controllata e accomodante le gaffe del premier vengono minimizzate, o celate o non mostrate in Tv, che la maggior parte degli italiani vive nell'illusione che Berlusconi goda di vasto rispetto oltreoceano, quando invece è considerato pressoché universalmente un buffone. Non è semplicemente una questione di stile. Il profondo sessismo e la misoginia sono entrambi specchio di una società in cui le donne hanno pochissimo potere, e l'Italia è agli ultimi posti quanto a presenza delle donne in politica e nella forza lavoro. Il basso livello di partecipazione alla forza lavoro è considerato un fattore importante nella scarsa performance economica italiana degli ultimi anni, non si tratta quindi solo di equità, e lo squilibrio tra uomini e donne è stato posto in relazione con il bassissimo tasso di natalità in Italia, un tema teoricamente caro al centrodestra.

Ma al di là del sessismo e della misoginia, sessualizzando e personalizzando la sfera politica Berlusconi procede nel cambiare la natura fondamentale della democrazia in Italia. Parlare delle 'mie fanciulle' e delle 'mie bambine' , rientra nello stile di governo patrimoniale di Berlusconi, in cui il Parlamento e il governo sono semplicemente un'estensione del suo potere personale e del suo impero finanziario. Berlusconi ha cambiato la legge elettorale italiana, contro la volontà degli italiani espressa in un referendum, per tornare ad un sistema proporzionale imponendo il potere quasi assoluto dei segretari di partito sui candidati al Parlamento. Non era solo la maniera perfetta per perpetuare il sistema delle "caste" in Italia, ma dava a Berlusconi la facoltà di mettere in Parlamento chi volesse, riducendo il ruolo del parlamentare a quello di un mero dipendente. Il risultato è una Deborah Bergamini, ex assistente personale di Berlusconi cacciata dalla Rai perché nell'esercizio delle sue funzioni pubbliche eseguiva gli ordini del suo ex capo. La punizione? Una liquidazione di più di 350.000 euro e un seggio in Parlamento. L' Italia è in teoria una democrazia parlamentare, ma sotto Berlusconi il Parlamento è stato svuotato di ogni reale significato. Non è che un timbro di gomma per avallare le decisioni del capo.

In questo senso l'ultimo scandalo, quello delle 'bambine' , è pregnante. Prendiamo ad esempio un siparietto che ha ricevuto molta meno attenzione del dovuto. Durante una seduta del Parlamento Berlusconi ha inviato un "affettuoso" bigliettino a due giovani parlamentari, Gabriella Giammanco e Nunzia de Girolamo, due delle tante onorevoli la cui unica qualifica è un bel faccino e il fascino che esercitano su Berlusconi. Il biglietto diceva: «Gabri, Nunzia, state molto bene insieme! Grazie per restare qui, ma non è necessario. Se avete qualche invito galante per colazione, Vi autorizzo (sottolineato) ad andarvene! Molti baci a tutte e due!!! Il "Vostro" presidente». In realtà il riferimento all'aspetto fisico e all'"invito galante" etichettano le due donne come null'altro che oggetti sessuali che non devono curarsi dei lavori parlamentari, sono solo decorative.

Questa totale confusione tra pubblico e privato rispecchia la visione berlusconiana dello "stato patrimoniale", come lo definì Giuliano Ferrara, in cui tutto e tutti appartengono a Berlusconi. Ai tempi di Luigi XIV, non c'era distinzione tra pubblico e privato. La corte assisteva nella stanza da letto del re alla vestizione e a molte funzioni corporali del sovrano. Ma il motto di Luigi XIV "L'etat c'est moi" era in realtà un passo avanti rispetto all'anarchia feudale e implicava pur sempre un concetto di Stato. Quello di Berlusconi è ancor più primitivo, più vicino alla frase "E' tutta roba mia". Ragione di più perché le intercettazioni siano pubblicate e analizzate in tutte le loro implicazioni. Chi decide quali nastri siano 'irrilevanti' e meramente personali quando il meramente personale e il politico sono inesorabilmente interconnessi?

(Traduzione di Emilia Benghi)

lunedì 14 luglio 2008

Lodo Mangano

M. Travaglio, l'Unità, 12 luglio 2008


Ieri La Stampa e l’altroieri il Corriere sono usciti con due editoriali dallo stesso titolo: “Il male minore”. Il primo di Carlo Federico Grosso, il secondo di Vittorio Grevi. I due insigni giuristi sostengono la stessa tesi: piuttosto che sospendere per anni 100 mila processi, meglio il lodo Alfano che sospende solo quelli di Berlusconi. Almeno si potranno celebrare tutti gli altri. La tesi è interessante, anche se non proprio inedita: già Catalano, a “Quelli della notte”, teorizzava che è meglio sposare una donna bella, giovane e ricca che una donna brutta, vecchia e povera. E’ probabile che, pur senza cattedre né lauree, anche Catalano riuscirebbe a sostenere che è meglio sospendere 4 processi che 100 mila. Ma avrebbe qualche difficoltà a scrivere contemporaneamente che il Lodo è incostituzionale, ma il capo dello Stato fa bene a firmarlo, anche se sarebbe suo dovere di garante della Costituzione non firmarlo, però Ciampi firmò il Lodo Schifani ancor più incostituzionale del’Alfano e allora il suo successore deve ripetere l’errore perchè non si interrompe un’emozione.

La teoria del male minore è quella che negli anni 20 ha spalancato le porte al fascismo. Berlusconi ci campa da più di vent’anni. Crea un precedente, fa un gran casino per farlo digerire, giura che è l’ultima volta. Invece è sempre la penultima. Lo erano i decreti salva-Fininvest di Craxi nel 1984-‘85. Lo era la legge Mammi nel ‘90. Lo erano le leggi ad personas per mandare in prescrizione i suoi processi e salvare il suo monopolio abusivo sulle tv, gentilmente offerte dall’Ulivo ai tempi della Bicamerale. Lo erano le leggi ad personam
firmate da lui stesso nel 2001-2006. Alla fine qualche buontempone tirò un sospiro di sollievo: “Bene, ora che ha risolto i suoi guai con la giustizia, si può finalmente parlare di politica”. Peccato che lui nel frattempo avesse seguitato a delinquere, procurandosi nuovi processi, oltre a dover salvare Previti per evitare che ritrovasse la memoria: l’Unione gli regalò pure l’indulto Mastella di 3 anni, liberando 40 mila delinquenti per salvarne uno. Così poi il governo crollò grazie a Mastella e l’Unione perse le elezioni, mentre chi l’aveva imposto così ampio riuscì a stravincerle all’insegna della “sicurezza” e della “tolleranza zero”.

Questo grottesco “dialogo” dove parla solo lui, questo ridicolo “pari e patta” dove vince solo lui, questo stravagante “do ut des” dove si vede solo il do e mai il des è proseguito anche durante e dopo la campagna elettorale. Lui aveva il solito problema: sistemare 4 processi e una tv abusiva. E ha cominciato a scassare tutto, come gli insegnò l’”eroe” Vittorio Mangano quand’era a servizio in casa sua ad Arcore. Ogni tanto voleva l’aumento o era un po’ giù di morale, allora andava nell’altra villa, quella di via Rovani a Milano, e la sventrava con una bomba. “Un altro scriverebbe una raccomandata”, disse Al Tappone a Dell’Utri in una celebre telefonata nel 1986, “lui ha messo la bomba”. E Marcello, sempre spiritoso: “Per forza, non sa scrivere!”.

Angelino Alfano, invece, sa scrivere. Soprattutto le leggi che gli dettano il padrone e l’avvocato Ghedini. Si sequestra la Giustizia bloccando 100 mila processi, vietando di intercettare i delinquenti, tagliando i fondi alla Giustizia e alle forze dell’ordine e gli stipendi ai magistrati. Poi arriva Angelino Jolie a chiedere il riscatto: se passa subito il Lodo Mangano, si modifica il blocca-processi. Chissenefrega degli altri 100 mila processi, se saltano subito i 4 di Al Tappone. Ha vinto lui, per l’ennesima volta. Ha vinto il racket, anche se il coro dei servi urlacchia “abbiamo vinto noi, ora riparte il dialogo, il vero problema sono Grillo e Sabina Guzzanti”. Poco importa se, fino a mezz’ora prima, queste facce di tolla avevano giurato il blocca-processi era cosa buona e giusta, ed era fatto per noi, non certo per Lui. Al Tappone aveva scritto al suo riporto personale, Schifani, che il blocca-processi era talmente urgente decisivo per le sorti della Nazione da non ammettere discussioni, e pazienza se casualmente “sarebbe applicabile a uno fra i molti fantasiosi processi che magistrati di estrema sinistra hanno intentato contro di me per fini di lotta politica”. Ora che il blocca-processi sparisce, è ufficiale che il premier ha mentito al Senato e al suo indegno presidente per ottenere quel che voleva. “Il male minore - diceva Sylos Labini - non esiste: è sempre il preannuncio di un male peggiore”. Appuntamento al prossimo male minore.



Leggi anche

Gianfranco Funari, uomo libero di Marco Travaglio (l'Unità, 13 luglio 2008)

Berlusconi perseguitato, bugie con la virgola di Marco Travaglio (da l'Espresso in edicola)

Ma al cane dell'Alta Carica dello Stato chi ci pensa? La terza puntata della rubrica sula giustizia di Bruno Tinti



sabato 12 luglio 2008

Il lodo Metastasi



Dunque abbiamo assodato che, quando Al Tappone definisce “metastasi” la magistratura, è una battuta. Quando definisce “coglioni” gli elettori che non votano per lui e “spazzatura” 50 mila persone che manifestano contro di lui, è una battuta. Quando il ministro Bossi preannuncia “300 mila fucili” pronti a sparare in Padania, è una battuta. Gli unici che non possono fare battute sono i comici: quelli “insultano”, “vilipendono”, minacciano la democrazia. Invece chi sfigura la Costituzione a propria immagine e somiglianza “dialoga”, anche se parla da solo.
A questo proposito, circolano due singolari leggende metropolitane

1) Il Lodo Alfano, detto anche Dolo Berlusconi, sarebbe legittimo e ragionevole, se solo non fosse approvato con legge ordinaria, ma costituzionale.
2) Il Lodo Alfano risponderebbe ai rilievi avanzati dalla Consulta nella sentenza del gennaio 2004 che bocciava il Lodo Schifani. Ragion per cui, si apprende da una nota del Quirinale, la firma del capo dello Stato sarebbe addirittura “una scelta obbligata” anche in calce a una legge ordinaria.

E’ quel che sostiene, per esempio, l’ex presidente della Corte Alberto Capotosti con un’intervista al Corriere in cui afferma l’esatto contrario di quel che lui stesso disse al Corriere il 26 giugno. Allora parlava di “via impervia”, di “scorciatoia per ottenere l’immunità delle alte cariche”, citava “il precedente della sentenza della Corte costituzionale che nel 2004 ha dichiarato illegittimo il lodo Schifani”, sentenza “di cui sento circolare letture semplificate”, mentre in realtà bocciava l’immunità “con molta eleganza e riferimenti a principi generali”. Ragion per cui, niente immunità per le alte cariche: piuttosto, meglio “reintrodurre l’autorizzazione a procedere per i parlamentari, abolita nel ‘93”.Ora, con una spettacolare capriola, Capotosti afferma che “il lodo Alfano non va manifestamente contro la Costituzione” e può passare addirittura “con legge ordinaria”.
Come possa la Costituzione prevedere all’articolo 3 che “tutti i cittadini sono eguali dinanzi alla legge senza distinzioni…di condizione sociale” e una legge ordinaria stabilire che 4 cittadini sono più uguali degli altri solo per la carica che ricoprono, lo sa solo lui. Ma il partito dei pompieri s’è messo in moto, e poco importa se ben 100 costituzionalisti, fra cui gli ex presidenti della Corte Onida, Elia e Zagrebelsky, sostengono che il Lodo è incostituzionale sia perché è una legge ordinaria, sia perché viola - nel merito - alcuni principi fondamentali della Carta.

Potrebbe sembrare una disputa tra diversi orientamenti, ma non è così. Perché non è vero che la sentenza del 2004 dica che si può derogare alla Costituzione con legge ordinaria. Anzi, dice l’esatto contrario: “Alle origini della formazione dello Stato di diritto sta il principio di parità di trattamento rispetto alla giurisdizione, il cui esercizio, nel nostro ordinamento, sotto più profili, è regolato da precetti costituzionali”. Non da leggi ordinarie, approvate a colpi di maggioranza semplice (in barba all’art.138, che impone la doppia lettura parlamentare e la maggioranza dei due terzi, pena il referendum confermativo). Dunque non è vero che la sentenza “lavi” preventivamente il nuovo Lodo e imponga al Quirinale di firmarlo. Anche perché, a parte un paio di dettagli, il Lodo Alfano riproduce gli obbrobri - già bocciati dalla Consulta - del Lodo Schifani. L’unica differenza sostanziale è che è rinunciabile e vale per una sola legislatura, mentre l’altro era automatico e illimitato. Ma questo è pure “reiterabile… in caso di nuova nomina nel corso della stessa legislatura”. Se, alla fine di questa, Al Tappone riesce a passare da Palazzo Chigi al Quirinale, porta con sé sul Colle lo scudo spaziale che aveva già a Palazzo Chigi. Che dunque durerebbe 5 anni più 7, rendendolo auto-immune fino al 2020 quando ne avrà 84.

Paradossalmente, se facesse uccidere Napolitano per sloggiarlo anzitempo, non sarebbe punibile e potrebbe prendere il suo posto senza che nessuno possa processarlo. E proprio questo era uno dei motivi della bocciatura del 2004: il Lodo Schifani era “generale”, cioè sospendeva i processi per “tutti gli ipotizzabili reati, in qualunque epoca commessi, che siano extrafunzionali, cioè estranei alle attività inerenti alla carica”, esattamente come l’Alfano; era “automatico”, cioè scattava “senza alcun filtro, quale che sia l’imputazione e in qualsiasi momento dell’iter processuale, senza possibilità di valutazione delle peculiarità dei casi concreti”, proprio come l’Alfano. La Corte citava poi l’art. 111, che impone la “ragionevole durata dei processi”, ovviamente incompatibile con una sospensione di 5 anni che può arrivare a 12; e l’art. 3, sull’eguaglianza di tutti i cittadini (compresi quelli che hanno subìto un reato); e l’art. 24 (“Tutti possono agire in giudizio per tutelare i propri diritti e interessi legittimi. La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento”). Ma l’art. 3 finiva (e finisce) in pezzi anche per la bizzarra scelta delle alte cariche da immunizzare: è assurdo, scriveva la Corte nel 2004, “accomunare in unica disciplina cariche diverse non soltanto per le fonti di investitura, ma anche per la natura delle funzioni e distingue, per la prima volta sotto il profilo della parità riguardo ai princìpi fondamentali della giurisdizione, i Presidenti delle Camere, del Consiglio dei ministri e della Corte costituzionale rispetto agli altri componenti degli organi da loro presieduti”. Il che conferiva alla norma “gravi elementi di intrinseca irragionevolezza”.

Ora il Lodo Alfano sfila il presidente della Consulta, ma resta il frittomisto fra una carica monocratica come quella del capo dello Stato e quelle collegiali come dei presidenti delle Camere e del premier. Queste ultime infatti, come ricordano i 100 costituzionalisti, non godono di speciali immunità in nessun’altra democrazia del mondo. A parte l’Italia prossima ventura: questa è la sola, vera “metastasi”.


di M.Travaglio


mercoledì 9 luglio 2008

Si prega di abbassare i toni


Dopo aver passato la giornata ad ascoltare e leggere tutto quello che veniva detto a proposito della manifestazione di ieri in P.zza Navona ho deciso di commentarla anche io, visto che vi ho preso parte.
Si legge e ci informano che sono stati insultati il Presidente della Repubblica e il Papa rispettivamente da B. Grillo e da S. Guzzanti. Il bello è che, chiaramente, solo questo ci dicono della manifestazione, di tutti gli altri (e sono stati parecchi) interventti silenzio di tomba. E' inoltre interessante notare che "gli attacchi" sono avvenuti da parte di due comici, i quali sono stati in passato a più riprese censurati e financo epurati dalla televisione pubblica. Ancora più interessante è il fatto che allora si difendevano in nome della libertà di espressione, oggi si grida allo scandalo. Si, molto interessante.
Proviamo ad analizzarli allora questi interventi (ripeto, mi sento in grado di farlo visto che ero lì mentre dicevano queste cose, non come molti dei commentatori del giorno dopo).
Parliamo di Grillo, personaggio che ancora prima di aprire bocca viene tacciato di essere un populista, fomentatore di folle e attaccabrighe nel peggiore dei modi (sembra quasi la descrizione del Cavaliere). Già il giorno antecedente la manifestazione si tremava al pensiero di cosa avrebbe potuto dire, era quindi facile immaginarsi che il personaggio sarebbe stato in qualunque modo esorcizzato. E infatti così è avvenuto visto che francamente, di cosiddetti attacchi a Napolitano, io non ne ho sentiti. Vi riporto il testo esatto di quello che ha detto il comico:
"
Dicono che offendo il Presidente della Repubblica. Io Morfeo non l’ho mai offeso. Sonnecchia. Firma delle cose. Questo patto della “Banda dei 4”. Ha firmato una cosa… Ve lo immaginate voi Pertini che firmava una legge che lo rendeva immune dalla giustizia italiana? Ma io non mi immagino neanche Ciampi, non riesco neanche a immaginarmi Scalfaro a fare una cosa così. E allora chi è questo uomo qua? Chi difende? È un primo cittadino o un uno che difende i partiti politici? Chi è? Quando c’era Chiaiano, la discarica: la Polizia contro le famiglie, a Napoli, la sua città. Lui dove festeggiava? Dove andava? È andata da una famiglia di Chiaiano a festeggiare qualcosa? Era a Capri a sentire della musica con due inquisiti: Bassolino e la moglie di Mastella. E allora, che esempio ho io da questa gente? Quale esempio ho?"
Ora che il verbo "sonnecchia" sia un insulto mi sembra proprio esagerato. Questo è stato un normale intervento di protesta all'indirizzo di una alta carica dello Stato che a mio avviso da qualche tempo viene difesa a spada tratta in qualunque occasione, quasi si trattasse di un uomo venuto dalle stelle e perciò ineffabile e mai in errore. Purtroppo è umano, è uguale di fronte alla legge come tutti e pertanto può anche sbagliarsi nello svolgere il suo operato. Cosa che secondo me ha fatto firmando tutte le carte che gli sono state sottoposte in materia di giustizia dalla parvenza di ministro Alfano.
Ma si sa, Grillo si critica a priori, nonostante tutto e qualunque cosa dica.

Veniamo a Sabina Guzzanti. Il caso qui è un po' più complicato (non esageriamo). Sul palco si sono sentiti, a detta dei giornali, ingiurie ignominiose rivolte al ministro M. Carfagna e al Papa Benedetto XVI. L'intervento integrale lo trovate qui e qui .
Parole forti, non c'è dubbio. Lo ammetto: anche io dopo l'intervento su Ratzinger non ho applaudito. Ma a mente lucida mi sono ricordato quale tipo di genere teatrale porta avanti Sabina: la Satira. Ecco quindi che mi sono spiegato il perchè di quelle che sembravano invettive e non lo erano. E perchè alle sue parole mi veniva da ridere, come al resto della piazza che meno ipocritamente di me l'ha applaudita.
Perchè la satira è questo, non è volgare, è solo esplicita. Come dice un altro attore che di satira se ne intende "Mantiene la sana oscillazione del nostro immaginario tra sacro e profano. Una volta le due cose convivevano, adesso in un tempo di nuovi integralismi solo al sacro viene concesso il diritto di esistere. Sbagliato. Il potere questo diritto vuole farcelo dimenticare e cerca di far ricadere la colpa della censura sul censurato". Questo era Daniele Luttazzi, epurato in Rai e La7, e che è stato appoggiato in quei momenti sostenendo il sacrosanto diritto alla libertà di espressione, dagli stessi che oggi sono indignati per le parole della Guzzanti.
Per capire meglio e per bene quali siano, se davvero ne ha, i confini della satira leggetevi questo post di Dario Fo, Premio Nobel per la letteratura. Ve ne voglio riportare un estratto decisamente inerente al tema trattato:

"Lo stesso Dante usa immagini similari per colorare di veemente indignazione la presenza di certi notissimi personaggi in cui incappa nell’infernale viaggio osceno. “A chi servirà quel buco vomitante fuoco?” chiede il tosco poeta a Virgilio. E quegli risponde: “Là dentro verrà fra poco infilato testa in giù, un Pontefice che ben merita di starsene a cottura lenta e le natiche al vento a sbattacchiar gambe al par d’un forsennato!”. Quel Pontefice è nientemeno che Bonifacio VIII, quello che incarcerò, costringendolo a vivere incatenato tra le proprie feci, Jacopone da Todi che si era permesso di insultare il Santo Padre in questione urlandogli: “Ahi! Bonefax! Hai iogato ben lo munno! Ahi! Bonefax! Che come putta hai traito la Ecclesia!” cioè, come una puttana hai ridotto la Chiesa!

Oggi, si sa, nessun cardinale si permetterebbe di porre mano pesante su questi scritti... è questione di opportunità e stile... oggi!"

Ecco quindi che forse, prima di scandalizzarsi tanto per quello che viene detto da una persona che per mestiere si esprime sempre in termini di satira, bisognerebbe un po' pensare.
Quello che invece a me viene in mente è che oramai siamo veramente un paese a senso unico: il pensiero, le parole, le espressioni diverse non sono tollerate. Ne da destra ne da sinistra.
Mi rammarico che ci sia stata una totale levata di scudi in difesa di Napolitano a cui non era stato portato alcun attacco, ma solo critiche. Ancora di più mi rammarico per la continua, strenua, estenuante difesa verso il Vaticano. Verso quel Papa che ha acquistato una visibilità tale e che in tal modo viene osannato dalle televisioni, da essere considerato non come il vicario di Cristo, ma qualcosa di più. Un Papa che non una parola ha speso per condannare le guerre perpetrate dagli Stati Uniti durante la sua visita negli USA. Anzi li ha benedetti tutti senza colpo ferire. Proprio come ha fatto con il Premier italiano Berlusconi (come ricordava Camilleri dal palco ieri), al quale forse era opportuno almeno consigliare di andare a confessarsi prima di essere ricevuto. Un personaggio tale che si palesa al Santo Padre con una croce di oro massiccio tempestata di diamanti, quasi a voler sottolineare con un prezioso obolo la sua sottomissione ai voleri vaticani, poco a a che vedere con il simbolo della chiesa che aiuta i profughi, che porta conforto tra sangue e fango in quei paesi dove la guerra non è mai finita, che coraggiosamente accoglie e sostiene i giovani che si ribellano alla mafia in Sicilia.
Perchè una immagine così gretta non viene minimamente criticata dalle stesse gerarchie ecclesiastiche?
Poi però casca l'occhio su gli abiti del pontefice, sullo sfarzo delle sue residenze; ci si accorge della enorme quantità di immobili posseduti dal Vaticano completamente sgravati dall'Ici; si ascoltano i cori da stadio dei cosiddetti papa-boyz; si scopre il fiume di soldi che circola dietro l'8Xmille; si viene a conoscenza di come si sono tentati di insabbiare i casi di pedofilia dei vari vescovi; si presta attenzione alle frasi dogmatiche e quasi oscurantiste del Papa.
E qui si capisce il perchè.

Leggi anche l'articolo di M.Travaglio - Piazza Navona e le cose che non si possono dire

Il video di Roberto Corradi

 
Creative Commons License
Questo/a opera è pubblicato sotto una Licenza Creative Commons.