mercoledì 30 luglio 2008

Alitalia sta a guardare, il mondo corre

di Massimo Riva

Mentre a Roma ci si continua a baloccare attorno a una piccola Alitalia in tricolore, nel resto del mondo si corre, anzi si vola. La partecipazione di nozze fra British Airways e Iberia che Londra e Madrid hanno spedito ieri ai mercati non giunge inattesa e sarà forse presto accompagnata dall'annuncio di un "ménage a trois" con American Airlines.

I costi del trasporto aereo sono talmente schizzati verso l'alto - a causa dei prezzi dei carburanti, ma non solo - che la corsa a realizzare grandi dimensioni aziendali è diventata un passaggio obbligato per chi voglia sopravvivere in un mercato diventato sempre più duro. Tanto in Europa quanto oltre l'Atlantico. È di poche settimane fa la notizia della nascita di un nuovo colosso dei cieli Usa con la fusione fra Delta e Northwest. Subito seguita dalla firma di una stretta alleanza commerciale fra altri due giganti americani, Continental e United Airlines, preludio a ulteriori passi che porteranno United a un'integrazione con la rete Lufthansa. Un via libera in tal senso è già stato chiesto all'Antitrust di Washington.

In questo scenario internazionale in grande movimento quanto sta accadendo in Italia appare come l'ennesimo segnale di un Paese bloccato da una classe dirigente incapace di guardare aldilà del proprio naso. Altrove in poche settimane si formulano ipotesi strategiche, si fanno conti e piani industriali, si riuniscono i consigli di amministrazione e si prendono le delibere necessarie per organizzare fusioni e alleanze che permettano alle imprese di andare oltre le difficoltà incombenti. Da noi sono passati quattro mesi da quando, irretiti dalle altisonanti promesse di Silvio Berlusconi, i sindacati hanno creduto di fare i furbi facendo scappare il presidente di Air France dal tavolo dell'unica trattativa seria che avrebbe potuto garantire ad Alitalia un futuro di compagnia aperta sul mondo. Quattro mesi assai costosi perché così se ne sono andati in fumo anche i trecento milioni del prestito che il Tesoro - in nome e per conto dei contribuenti - ha versato nelle esauste casse di Alitalia.

E ora, mentre nel resto del pianeta si uniscono o si fondono compagnie di Paesi diversi senza perdite di tempo e denaro in miserevoli "querelles" da campanile, sembra che la luminosa idea dei patriottici salvatori di Alitalia sia quella di unire le magagne della boccheggiante compagnia di bandiera con le debolezze del suo concorrente interno (AirOne) nella brillantissima prospettiva che questo matrimonio di nanerottoli possa reggere economicamente su una rendita di quasi-monopolio nel mercato nazionale. Ma non è nemmeno detto che questa ipotesi di un'Alitalia mignon riesca ad andare in porto.

Innanzi tutto ci vogliono tanti bei quattrini. Qualcuno è disponibile a scucirne un po' anche perché può contare di rifarsi altrimenti. Come il gruppo Benetton, che un debito di riconoscenza con il governo Berlusconi ce l'ha dopo che gli è stata data mano libera sulle tariffe autostradali. O anche il costruttore Ligresti, che un bel po' di appalti per l'Expo milanese dovrebbe ottenerli. Quanto ad altri, in mancanza di tornaconti tangibili, non si va oltre a un obolo di facciata. Certo ci sono sempre le banche, a cominciare da Intesa Sanpaolo che il governo ha messo in mezzo con una procedura fin troppo disinvolta. Ma anche qui c'è un problema: non tutti i consiglieri d'amministrazione pensano che il loro ruolo sia quello di cavare le castagne dal fuoco a Berlusconi a spese degli azionisti.

Tuttavia, anche chi è disposto a metterci del suo pone una pregiudiziale. I privati intendono rilevare solo il poco di attivo che c'è nel bilancio Alitalia. Tutte le passività, debiti ed esuberi di personale devono essere isolati in una cosiddetta "bad company" da lasciare alla mano pubblica: ovvero, in forma diretta o indiretta, a carico dei contribuenti. Si capisce bene che a Palazzo Chigi stiano prendendo tempo. Dopo tutto Silvio Berlusconi si è fatto votare proclamando che non avrebbe mai messo le mani nelle tasche dei cittadini: aggiungere ulteriori esborsi pubblici ai 300 milioni del prestito di primavera sarebbe davvero una diabolica beffa, in primo luogo per i suoi elettori.

Un'altra ragione di grave imbarazzo del presidente del Consiglio riguarda il fronte sindacale. Con le sparate contro Air France Berlusconi ha illuso i lavoratori di Alitalia che la sua cura sarebbe stata meno cruenta di quella dei francesi. Così non è: secondo i progetti dei sedicenti patrioti, gli esuberi potrebbero essere anche quasi il doppio. E ciò spiega perché questo piano di salvataggio potrebbe essere annunciato soltanto a fine agosto: i capitani coraggiosi di Palazzo Chigi non hanno l'ardire di mettere le carte in tavola perché vivono nel ben fondato terrore degli scioperi che paralizzerebbero i cieli italiani nel bel mezzo di Ferragosto. Così, in un misto di grande pavidità e piccole furbizie, l'ultimo atto della tragedia Alitalia, cominciato con l'annuncio che perfino i figli del premier avrebbero messo i soldi di casa a disposizione, si avvia verso l'epilogo più spudorato: il conto delle guasconate del Cavaliere a carico di Pantalone.

(30 luglio 2008) da Repubblica.it


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