venerdì 17 ottobre 2008

Tagli spietati

Pubblicato Mercoledì 15 Ottobre 2008 in Inghilterra su [Nature], tradotto da Italia dall'estero

Nel tentativo di accelerare la sua arrancante economia, il governo italiano si concentra su obiettivi facili, ma sconsiderati. È un periodo buio e arrabbiato per i ricercatori in Italia, esposti ad un governo che mette in atto la sua strana filosofia per il taglio dei costi. La settimana scorsa, decine di migliaia di ricercatori sono scesi in strada per manifestare la loro opposizione ad una proposta di legge volta a frenare la spesa pubblica. Se passa, come previsto, la legge provocherebbe il licenziamento di quasi 2000 ricercatori precari, che costituiscono l’ossatura degli istituti di ricerca italiani perennemente a corto di personale - e metà di essi sono già stati selezionati per posizioni a tempo indeterminato.

Proprio durante la manifestazione dei ricercatori, il governo di centro-destra di Silvio Berlusconi, che è tornato al governo lo scorso maggio, ha deciso che i fondi di università e ricerca potrebbero essere usati per aiutare le banche e gli istituti di credito italiani. Questa non è la prima volta che Berlusconi ha bersagliato le università. Ad agosto ha firmato un decreto che tagliava i fondi universitari del 10% e ha permesso di coprire solo una posiziona accademica vuota su cinque. Ha anche permesso alle università di trasformarsi in fondazioni private per ottenere introiti aggiuntivi. Dato il clima attuale, i rettori universitari ritengono che l’ultimo passo sarà usato per giustificare ulteriori tagli ai fondi e che alla fine li costringerà a cancellare i corsi che non hanno grande valore commerciale, come gli studi classici o addirittura le scienze di base. La notizia è arrivata all’inizio delle vacanze estive, ma le conseguenze sono state comprese pienamente solo ora - troppo tardi, visto che il decreto sta per essere trasformato in legge.

Nel frattempo, il Ministro per l’educazione, l’università e la ricerca, Mariastella Gelmini, non si è espressa in merito a tutte le questioni relative al suo ministero tranne quella sulle scuole secondarie e ha permesso che decisioni governative consistenti e distruttive fossero eseguite senza fare alcuna obiezione. Ha rifiutato di incontrare i ricercatori e gli accademici per ascoltare le loro preoccupazioni o per spiegare loro le direttive che sembrano richiedere il loro sacrificio. Inoltre non ha neppure delegato un sottosegretario che si occupi di tali questioni al suo posto.

Le organizzazioni scientifiche colpite dalla legge sono tuttavia state ricevute dall’ideatore della legge, Renato Brunetta, Ministro della pubblica amministrazione e innovazione. Brunetta ritiene che si possa fare ben poco per fermare o modificare la legge, anche se è ancora in discussione nei vari comitati e deve ancora essere votata in entrambe le camere. In un’intervista ad un quotidiano, Brunetta ha paragonato i ricercatori ai “capitani di ventura” [sic N.d.T.], mercenari avventurieri del rinascimento, dicendo che dar loro un lavoro permanente equivarrebbe quasi ad ucciderli. Ciò mistifica un problema che i ricercatori gli avevano spiegato: che la ricerca di base di un paese richiede un adeguato rapporto tra il personale permanente e quello precario, con i ricercatori precari (per lo più post-dottorati) che si spostano tra laboratori di ricerca permanenti, stabili e ben equipaggiati. In Italia, come hanno tentato di spiegare a Brunetta, questo rapporto è tutt’altro che adeguato.

Il governo Berlusconi può anche ritenere che siano necessarie delle misure finanziare severe, ma i suoi attacchi alla ricerca di base italiana sono avventati e poco lungimiranti. Il governo ha trattato la ricerca semplicemente come un’altra spesa da tagliare, quando invece dovrebbe essere considerata un investimento per costruire l’economia del sapere del ventunesimo secolo. In effetti l’Italia ha già sposato questo concetto aderendo alla Strategia di Lisbona 2000 dell’Unione Europea, in cui gli stati membri hanno promesso di aumentare i fondi di ricerca e sviluppo (R&D) fino al 3% del loro prodotto interno lordo. L’Italia, un paese del G8, ha una delle spese in R&D più basse del gruppo, essendo appena dell’1.1%, meno della metà di quanto spendono nazioni comparabili come la Francia e la Germania.

Il governo non deve considerare solo i guadagni a breve termine attuati attraverso un sistema di decreti facilitato da ministri compiacenti. Se vuole preparare un futuro realistico per l’italia, come dovrebbe, il governo non dovrebbe riferirsi pigramente al passato, ma capire come funziona la ricerca in Europa oggi.

[Articolo originale]

mercoledì 15 ottobre 2008

Università Pubblica a Rotoli

A tutti gli utenti del blog:

Vista la tragica situazione a cui sta andando incontro l'Università pubblica vorrei potervi inviare un utile Power Point, chiaro e semplice che spiega i danni che apporterà la legge 133.

Chi fosse interessato lasci nei commenti la sua email e io glielo invierò!

Facciamo passaparola!

martedì 14 ottobre 2008

Il “dissanguamento” dell’accademia italiana

dal sito Italia dall'estero

[Deutschlandfunk] 8/10/08

Nuovo atto nel dramma delle università italiane.

Le università italiane si trovano di fronte ad una nuova ondata di tagli promossa dal governo Berlusconi. Una nuova legge impone che solo un posto di lavoro su cinque tra quelli liberati nelle istituzioni statali per via di pensionamenti potrà essere rioccupato. Una delle conseguenze è che i giovani laureati italiani che cercano di entrare nel mondo del lavoro fuggono all’estero.

“Tutto questo non è un caso. C’è una strategia precisa alla base. Si mira alla rovina delle università statali attraverso un taglio sostanziale dei finanziamenti in modo che le università private ne traggano vantaggio”.

Mariangela Staccani è una ragazza con una brillante laurea in chimica e un dottorato ottenuto con il massimo dei voti. Quest’autunno avrebbe dovuto iniziare a lavorare all’Università di Roma La Sapienza con un contratto di ricercatrice per tre anni. Nonostante gli esperti considerino la trentenne come una delle persone più qualificate tra i chimici della sua generazione, Mariangela è ora disoccupata. A causa dei limiti nelle assunzioni previsti dalla legge promulgata dal governo di centro-destra di Silvio Berlusconi, non può iniziare il lavoro che le era stato promesso:

“Questo è il primo atto della lunga storia verso la rovina delle università statali: in primo luogo si tagliano fuori i giovani ricercatori e poi (si) riducono i finanziamenti per la ricerca. In questo modo si dissangua tutto il sistema mentre fare ricerca diventa impossibile. Tutta la comunità scientifica si deve opporre.”

Ed è proprio questo che la comunità scientifica intende fare. Gli studenti, i giovani ricercatori e la Conferenza dei Rettori delle Università italiane si sono mobilitati contro le conseguenze dei nuovi tagli che si sono concretizzati all’inizio del nuovo anno accademico e sono ora evidenti in diversi settori.

La nuova legge sulle università prevede che per ogni cinque posti che si liberano per motivi di anzianità nelle istituzioni statali solo uno venga rioccupato. In questo modo, ha detto il ministro delle Finanze Giulio Tremonti, vero deus ex machina di questa legge, si potrà risparmiare molto. Infatti, secondo l’opinione del ministro, sono molte le istituzioni scientifiche statali ad avere più dipendenti del necessario. Questo è certamente vero in alcuni casi, ma lo stesso non può valere in generale per tutte le università, afferma Giancarlo Zavattini, vice rettore della Sapienza a Roma:

“Le nostre previsioni mostrano dove condurrà questo sistema. Se per ogni cinque professori o ricercatori che vanno in pensione solo uno verrà sostituito questo porterà invevitabilmente al dissanguamento del nostro corpo docenti. Conosco alcune università come quella di Benevento o del Molise, che nei prossimi anni non potranno liberare alcun posto. In tal modo queste università perderanno attrattivà tra i giovani accademici. Dove andranno allora i giovani ricercatori? A questa domanda, la nuova legge non dà risposta.”

Dall’entrata in vigore della nuova legge sulle università caute proiezioni mostrano come diverse centinaia di posti di lavoro per giovani ricercatori hanno dovuto essere eliminate. Il CENSIS, l’istituto di ricerca socioeconomica con sede a Roma, ha stimato che da settembre il numero di giovani laureati italiani che cercano lavoro in altri paesi europei e negli Stati Uniti è aumentato del 300% rispetto all’anno precedente. A riguardo, il sociologo Francesco Simoncelli ha commentato:

“Certamente gli studiosi devono pensare su scala internazionale, ma quello che sta succedendo in Italia a causa dei tagli imposti dalla nuova legge non è null’altro che un esodo di ricercatori verso l’estero. Potrei citare decine di casi di giovani scienziati, che avevano già i contratti di insegnamento e di ricerca in tasca ma che si trovano ora disoccupati. Stanno cercando di trasferirsi all’estero. L’italia intera ci rimette. E’ all’estero che beneficeranno del valore di questi giovani”.

[Articolo originale di Thomas Migge]

lunedì 13 ottobre 2008

Università, precari e studenti insieme contro il governo


ROMA - Il mondo delle università e della ricerca continua ad affilare le armi contro le politiche del governo in materia di istruzione. Oggi la protesta passa per Roma e Milano, ma in tutta Italia proliferano le iniziative che vedono studenti e precari insieme, contro i provvedimenti dell'esecutivo. Nel mirino delle proteste la cosiddetta "controriforma Gelmini", ovvero la legge 133 approvata il 6 agosto scorso - ex decreto Brunetta - e le sue norme sull'università: possibilità di trasformare gli atenei in fondazioni di diritto privato, tagli al fondo di finanziamento ordinario (un miliardo e mezzo di euro in 5 anni) e blocco del turn-over al 20 per cento (modulo 5 a 1: per cinque docenti in pensione ne entra solo uno). Stamane nella capitale, un corteo di "almeno un migliaio di studenti", dicono gli organizzatori, ha sfilato tra i viali della Sapienza per protestare, in particolare, "contro la privatizzazione dell'università". La manifestazione è stata avviata dai collettivi della facoltà di scienze (matematica, fisica, scienze naturali). "Il corteo cresce di momento in momento - hanno spiegato i collettivi -, stiamo entrando in tutti i dipartimenti della facoltà di scienze per bloccare le lezioni, poi faremo una grande assemblea sotto la statua della Minerva". A Milano una settantina di studenti ha occupato il rettorato della Statale. Fanno parte dei collettivi delle facoltà di Scienze politiche, Mediazione culturale, Accademia di Brera. Sono studenti della Statale, del Politecnico e della Bicocca. Un gruppo di manifestanti ha incontrato il rettore Enrico Decleva.
Gli studenti chiedono, in caso la legge 133 non venga abrogata, le dimissioni del rettore e del senato accademico, l'annullamento dell'inaugurazione dell'anno accademico a novembre, un pronunciamento chiaro sulla legge, la garanzia che non saranno aumentate le tasse universitarie né diminuiti i servizi. "Chiediamo anche che il senato accademico si esprima per il blocco immediato della didattica - dice Marco, uno degli occupanti - per dare a tutti gli studenti la possibilità di mobilitarsi". (13 ottobre 2008), da Repubblica.it

leggi anche:
"Sms e mail a Napolitano: non firmare la Gelmini" - da l'Unità

domenica 12 ottobre 2008

La vergogna e il Bagaglino

Quando stamattina ho letto su internet della morte di Haider ho provato un sentimento di cui mi sono vergognato. Anche ora mi imbarazza definirlo. Forse la parola adatta non esiste. Non è «soddisfazione», ma onestamente le somiglia. Non è stata la prima volta. Ero un ragazzo quando morì Franco. Rafael Alberti disse qualcosa come: «Le fiamme dell'inferno non sono sufficienti per accoglierlo». Mi piacque. Quella frase mi tornò in mente quando morì Pinochet. Mi è tornata in mente oggi, dopo Haider. Poi mi sono vergognato. Forse perché Haider aveva la mia età e questo mi ha fatto avvertire che non era solo un simbolo, era un uomo. Ho guardato le sue foto. Ho letto che lo paragonano a Bossi. Ho pensato ai loro vestiti tirolesi, alle camicie nere di Berlusconi al Bagaglino, ai simboli neofascisti esibiti da chi ci governa. Ho provato pena per Haider, alla fine, poi anche per me.

Giovanni Pera

È una bella lettera, la leggo e la rileggo. Bella perché parla di vergogna senza vergogna e di pena senza pudore. Perché entra con semplicità in un terreno complesso: l’ambiguità dei propri sentimenti e nei sentimenti, è chiaro, alberga anche la politica. Non ci si rallegra per la morte di nessuno: mai. Di un tiranno a lungo subìto, questo sì può accadere: «Beviamo a viva forza, è morto Mirsilo», scriveva Alceo. Però Haider non era un tiranno e neppure un dittatore, non era Franco né Pinochet. Era un leader politico della destra estrema, la destra vincente fatta di simboli odiosi e a questo può ridurre l’esasperazione e la frustrazione di chi si trova, davanti all’onda, in minoranza: a confondere la battaglia politica con l’odio personale. È un errore gravissimo che nasce dalla cultura sommaria dominante, rafforza questa cultura anziché combatterla: buoni contro cattivi, indiani contro cow boy e chi vince non fa prigionieri. Non è questo il terreno di scontro: non è la vita o la morte dell’avversario. È il prevalere delle idee e dei valori di cui ciascuno è portatore, è la mia opinione contro la tua e la forza delle ragioni che la sostengono, il comune sentire da cui germinano.

Questo il vero campo di battaglia: lo spirito del tempo e gli elementi che lo costruiscono, lo consolidano. Il problema non è che Berlusconi la sera vada al Bagaglino, nel fine settimana da Messeguè, la notte in discoteca vestito in «total black». Le donne se sono mogli di qualcun altro, dice la sua barzelletta, si pagano. È evidente che personalmente – finché è nel lecito - può vestire e passare il tempo come vuole. Il problema è il compiacimento e l’identificazione che suscita come «modello politico vincente». Il berlusconismo. L’idea che del fascismo non mi occupo perché ho da lavorare, che il Parlamento mi deprime. Che se hai i soldi puoi aggiustare i conti delle banche e delle città, puoi comprarti l’impunità e delle regole chi se ne frega, roba da moralisti tristi. È da qui che germinano i cori «duce duce» che ormai accompagnano la nostra nazionale di calcio all’estero, i caschi rosa con la svastica che le adolescenti comprano al mercato «perché vanno». Di questo sì c’è da vergognarsi: di non saperglielo spiegare. Meno male che si torna in piazza. Protestare va bene ma anche proporre, per favore. Indicare una rotta diversa, se possibile. Che non sia speriamo che muoia. Come per Haider, che non ci mancherà ma che se fosse invecchiato sconfitto a trastullarsi coi falconi in una baita sarebbe stato meglio. Per lui e per tutti.

di Concita de Gragorio
, da l'Unità.it

sabato 11 ottobre 2008

giovedì 9 ottobre 2008

Quel che resta dell'Università

di Aldo Giannulli, da l'Unità 09/10/08

Le notizie sono da bollettino di guerra: il Rettore della Statale di Milano dice che, a seguito dei tagli, non sa se già dal 2010 sarà costretto a bloccare il pagamento degli stipendi, quello di Siena dichiara che non sa come fare già dal 1° gennaio, e così via. Inoltre nel giro di sei anni andranno in pensione circa il 50% degli attuali ordinari ed associati; questa legge finanziaria prevede che, sino al 2012, solo un quinto di essi possano essere sostituiti con nuovi concorsi e, dal 2013 uno su due. Ovviamente, si apriranno vuoti paurosi nella didattica che saranno colmati o con il lavoro gratuito dei ricercatori (magari promossi “professori aggregati”, con lo stesso stipendio di oggi, per obbligarli a farlo a costo zero) o con contratti a tempo. Forse siamo maligni (d’altra parte, “qualcuno” ci ha insegnato che “a pensar male si fa peccato, però si indovina”) ma ci viene il dubbio che questa cura da cavallo abbia poco a che fare con reali esigenze di bilancio e punti invece ad una rapida e generalizzata privatizzazione dell’Università.

Già la manovra finanziaria di luglio ha fatto balenare l’ipotesi che le università possano trasformarsi in fondazioni di diritto privato, con una semplice delibera del senato accademico. Allora facciamo una ipotesi: le università, una dopo l’altra, si trovano in condizioni di non poter far fronte alle spese e decidono per questo di trasformarsi in fondazioni, per acquisire soci privati, con due esiti: alcune li trovano e, in breve, diventano appendici di qualche gruppo finanziario, altre non li trovano e, semplicemente, falliscono (come ogni impresa privata) ed i loro beni vanno all’incanto, acquistati per due soldi, da gruppi finanziari che ci fanno la loro università. Ovviamente, università privatizzate non avrebbero alcun interesse a bandire concorsi, ma procederebbero con contratti da precari, e non avrebbero alcun interessa a mantenere facoltà “improduttive”: ci sarà un futuro per Lettere, Scienze Naturali, Scienze della Comunicazione? E al posto di Lingue non basterà una scuola per traduttori e interpreti?

Qui non si tratta di qualche taglio alla spesa pubblica, ma del tentativo di cambiare natura al sistema universitario italiano con un colpo di mano. Beninteso, l’attuale ordinamento è indifendibile: l’offerta didattica fa pietà, i profili professionali sono assolutamente fuori mercato, la selezione del corpo docente è clientelare e scandalosa, la ricerca sopravvive in poche isole. Ma non sarebbe una gran soluzione quella di passare dalla padella baronale alla brace padronale. Occorre pensare ad una forma radicalmente nuova di università alternativa tanto a quella esistente quanto a quella che ci propongono Tremonti e la Gelmini. Possiamo provare a discuterne?

leggi anche:
"A cento passi dal Municipio" - di Gianni Barbacetto
 
Creative Commons License
Questo/a opera è pubblicato sotto una Licenza Creative Commons.