di Aldo Giannulli, da l'Unità 09/10/08
Le notizie sono da bollettino di guerra: il Rettore della Statale di Milano dice che, a seguito dei tagli, non sa se già dal 2010 sarà costretto a bloccare il pagamento degli stipendi, quello di Siena dichiara che non sa come fare già dal 1° gennaio, e così via. Inoltre nel giro di sei anni andranno in pensione circa il 50% degli attuali ordinari ed associati; questa legge finanziaria prevede che, sino al 2012, solo un quinto di essi possano essere sostituiti con nuovi concorsi e, dal 2013 uno su due. Ovviamente, si apriranno vuoti paurosi nella didattica che saranno colmati o con il lavoro gratuito dei ricercatori (magari promossi “professori aggregati”, con lo stesso stipendio di oggi, per obbligarli a farlo a costo zero) o con contratti a tempo. Forse siamo maligni (d’altra parte, “qualcuno” ci ha insegnato che “a pensar male si fa peccato, però si indovina”) ma ci viene il dubbio che questa cura da cavallo abbia poco a che fare con reali esigenze di bilancio e punti invece ad una rapida e generalizzata privatizzazione dell’Università.
Già la manovra finanziaria di luglio ha fatto balenare l’ipotesi che le università possano trasformarsi in fondazioni di diritto privato, con una semplice delibera del senato accademico. Allora facciamo una ipotesi: le università, una dopo l’altra, si trovano in condizioni di non poter far fronte alle spese e decidono per questo di trasformarsi in fondazioni, per acquisire soci privati, con due esiti: alcune li trovano e, in breve, diventano appendici di qualche gruppo finanziario, altre non li trovano e, semplicemente, falliscono (come ogni impresa privata) ed i loro beni vanno all’incanto, acquistati per due soldi, da gruppi finanziari che ci fanno la loro università. Ovviamente, università privatizzate non avrebbero alcun interesse a bandire concorsi, ma procederebbero con contratti da precari, e non avrebbero alcun interessa a mantenere facoltà “improduttive”: ci sarà un futuro per Lettere, Scienze Naturali, Scienze della Comunicazione? E al posto di Lingue non basterà una scuola per traduttori e interpreti?
Qui non si tratta di qualche taglio alla spesa pubblica, ma del tentativo di cambiare natura al sistema universitario italiano con un colpo di mano. Beninteso, l’attuale ordinamento è indifendibile: l’offerta didattica fa pietà, i profili professionali sono assolutamente fuori mercato, la selezione del corpo docente è clientelare e scandalosa, la ricerca sopravvive in poche isole. Ma non sarebbe una gran soluzione quella di passare dalla padella baronale alla brace padronale. Occorre pensare ad una forma radicalmente nuova di università alternativa tanto a quella esistente quanto a quella che ci propongono Tremonti e la Gelmini. Possiamo provare a discuterne?
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