Quando stamattina ho letto su internet della morte di Haider ho provato un sentimento di cui mi sono vergognato. Anche ora mi imbarazza definirlo. Forse la parola adatta non esiste. Non è «soddisfazione», ma onestamente le somiglia. Non è stata la prima volta. Ero un ragazzo quando morì Franco. Rafael Alberti disse qualcosa come: «Le fiamme dell'inferno non sono sufficienti per accoglierlo». Mi piacque. Quella frase mi tornò in mente quando morì Pinochet. Mi è tornata in mente oggi, dopo Haider. Poi mi sono vergognato. Forse perché Haider aveva la mia età e questo mi ha fatto avvertire che non era solo un simbolo, era un uomo. Ho guardato le sue foto. Ho letto che lo paragonano a Bossi. Ho pensato ai loro vestiti tirolesi, alle camicie nere di Berlusconi al Bagaglino, ai simboli neofascisti esibiti da chi ci governa. Ho provato pena per Haider, alla fine, poi anche per me.
Giovanni Pera
È una bella lettera, la leggo e la rileggo. Bella perché parla di vergogna senza vergogna e di pena senza pudore. Perché entra con semplicità in un terreno complesso: l’ambiguità dei propri sentimenti e nei sentimenti, è chiaro, alberga anche la politica. Non ci si rallegra per la morte di nessuno: mai. Di un tiranno a lungo subìto, questo sì può accadere: «Beviamo a viva forza, è morto Mirsilo», scriveva Alceo. Però Haider non era un tiranno e neppure un dittatore, non era Franco né Pinochet. Era un leader politico della destra estrema, la destra vincente fatta di simboli odiosi e a questo può ridurre l’esasperazione e la frustrazione di chi si trova, davanti all’onda, in minoranza: a confondere la battaglia politica con l’odio personale. È un errore gravissimo che nasce dalla cultura sommaria dominante, rafforza questa cultura anziché combatterla: buoni contro cattivi, indiani contro cow boy e chi vince non fa prigionieri. Non è questo il terreno di scontro: non è la vita o la morte dell’avversario. È il prevalere delle idee e dei valori di cui ciascuno è portatore, è la mia opinione contro la tua e la forza delle ragioni che la sostengono, il comune sentire da cui germinano.
Questo il vero campo di battaglia: lo spirito del tempo e gli elementi che lo costruiscono, lo consolidano. Il problema non è che Berlusconi la sera vada al Bagaglino, nel fine settimana da Messeguè, la notte in discoteca vestito in «total black». Le donne se sono mogli di qualcun altro, dice la sua barzelletta, si pagano. È evidente che personalmente – finché è nel lecito - può vestire e passare il tempo come vuole. Il problema è il compiacimento e l’identificazione che suscita come «modello politico vincente». Il berlusconismo. L’idea che del fascismo non mi occupo perché ho da lavorare, che il Parlamento mi deprime. Che se hai i soldi puoi aggiustare i conti delle banche e delle città, puoi comprarti l’impunità e delle regole chi se ne frega, roba da moralisti tristi. È da qui che germinano i cori «duce duce» che ormai accompagnano la nostra nazionale di calcio all’estero, i caschi rosa con la svastica che le adolescenti comprano al mercato «perché vanno». Di questo sì c’è da vergognarsi: di non saperglielo spiegare. Meno male che si torna in piazza. Protestare va bene ma anche proporre, per favore. Indicare una rotta diversa, se possibile. Che non sia speriamo che muoia. Come per Haider, che non ci mancherà ma che se fosse invecchiato sconfitto a trastullarsi coi falconi in una baita sarebbe stato meglio. Per lui e per tutti.
di Concita de Gragorio, da l'Unità.it
domenica 12 ottobre 2008
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento