mercoledì 17 dicembre 2008

L’Onda nero-porpora

Ora d'aria, di M.Travaglio
l'Unità, 15 dicembre 2008


E’ vero, ogni giorno inghiottiamo una tal quantità di bocconi amari che ormai digeriamo anche i sassi. Ma quel che è accaduto una settimana fa, prontamente sparito dalle pagine dei giornali (in tv non ci è nemmeno arrivato) e dunque dal dibattito politico, meriterebbe una riflessione. Almeno nel centrosinistra, visto che nel centrodestra non si riflette: si obbedisce al padrone unico, o prevalente, comunque non facoltativo. Il governo Manidiforbice, sempre a caccia di soldi, aveva tagliato di un terzo (133 milioni su 540) i contributi alle scuole private “paritarie”, quasi tutte cattoliche. Poi i vescovi han protestato, minacciando di “scendere in piazza” con un’Onda nero-porpora. E in cinque minuti l’inflessibile Tremonti s’è piegato, restituendo quasi tutto il malloppo (120 milioni su 133).

Inutile discutere qui sulla costituzionalità della legge 62/2000 che regala mezzo miliardo di euro l’anno alle scuole private, in barba alla Costituzione che riconosce ai privati il diritto di creare proprie scuole, ma “senza oneri per lo Stato”. Qui c’è un Paese allo stremo, dove - a causa della crisi finanziaria e dei folli sperperi su Alitalia e sull’Ici - si taglia su tutto, a partire da scuola pubblica, università pubblica, ricerca pubblica. E’ troppo chiedere anche ai genitori che mandano i figli in istituti privati, dunque non proprio spiantati, di contribuire una tantum ai sacrifici per il bene di tutti? Quel che è accaduto in Parlamento dimostra che sì, è troppo. Anzi, non se ne può nemmeno discutere. Non solo il Pdl ha obbedito senza fiatare al “non possumus” vescovile. Non solo il Pd non ha detto una parola contro la sacra retromarcia tremontiana. Ma il ministro-ombra dell’istruzione Mariapia Garavaglia ha addirittura presentato al Senato una mozione per “l’immediato ripristino dei 133 milioni al fondo scuole paritarie”, e financo per l’aumento dello stanziamento in base alle promesse “del precedente governo”. Mozione firmata anche dai senatori Pd Rusconi, Bastico, Ceruti, Serafini, Soliani, Pertoldi e Vita, in nome di un imprecisato “diritto costituzionale”.

Le finalità dichiarate sono nobilissime: evitare danni agli asili, che specie nei piccoli comuni sono esclusivamente privati. Ma forse tanto allarmismo sarebbe stato più serio se accompagnato da qualche proposta per recuperare altrove le risorse necessarie: per esempio dando una ritoccatina al regime fiscale degl’immobili del clero che, anche quando dichiaratamente a scopo commerciale, in Italia sono esentasse. Certo, la cosa avrebbe suscitato non una, ma cento “onde” vaticane di protesta. Ma perché non prendere in parola il fondamentale discorso del Papa, l’altroieri, sul valore decisivo - per lo Stato e per la Chiesa - della separazione Stato-Chiesa? Cioè della laicità delle nostre istituzioni? Non si tratta di tornare al vetero-anticlericalismo ottocentesco. Basta ricordare quel che scrisse nel 1952 a Pio XII un cattolico doc come Alcide De Gasperi, quando il Papa gli revocò l’udienza privata nel trentesimo anniversario del suo matrimonio per essersi opposto al diktat vaticano di allearsi con i fascisti alle elezioni comunali di Roma: “Come cristiano accetto l’umiliazione, benchè non sappia come giustificarla. Come presidente del Consiglio e ministro degli Esteri, la dignità che rappresento e della quale non possono spogliarmi neppure nei rapporti privati, m’impongono di esprimere lo stupore per un gesto così eccessivo”. Parole sante, e durissime. C’è qualche politico italiano, a destra o a sinistra, che oggi saprebbe ripeterle?

leggi anche:
Dall'alta velocità a Castello di Marco Ottanelli (Democraziaelegalita.it)
(Contiene brani video della requisitoria del P.M.al Processo Tav.)

Don Camillo e l'onorevole Al Tappone - il video di Roberto Corradi

giovedì 11 dicembre 2008

Usa, il guru delle rinnovabili

da Repubblica.it

WASHINGTON - Sarà il Carlo Rubbia d'America a prendere in mano le redini del sistema energetico statunitense. Chi pensava che gli impegni di Barack Obama su ambiente e rivoluzione verde dell'industria fossero semplici promesse elettorali dovrà ricredersi. Questo, almeno, fanno intendere i nomi scelti dal presidente eletto degli Stati Uniti per alcuni ruoli chiave dell'amministrazione. Spicca, in particolare, la decisione di affidare lo strategico dipartimento per l'Energia al premio Nobel per la fisica Steven Chu. Docente all'Università di Berkeley, in California, Chu, 60 anni, è un'autorità accademica in materia di ricerca di fonti energetiche alternative e rinnovabili. La sua nomina rappresenta una rottura drastica quindi con l'amministrazione Bush, affollata da personaggi provenienti dalle grandi compagnie petrolifere. Il presidente eletto ha anche scelto come capo dell'Epa, l'agenzia federale per l'Ambiente, Lisa Jackson, ex responsabile per l'ambiente nel New Jersey, uno degli Stati che hanno volontariamente (anche se simbolicamente) aderito a un accordo tra stati molto simile al Protocollo di Kyoto. Carol Browner, ex capo dell'Epa della Florida e stretta collaboratrice di Al Gore, avrà inoltre un posto di coordinatrice delle politiche energetiche e ambientali dell'amministrazione. Completerà la squadra, secondo le indiscrezioni rilanciate dai media americani, Nancy Sutley, vice sindaco di Los Angeles, che verrà nominata alla guida del Council on Environmental Quality, un altro organismo della Casa Bianca dedicato all'ambiente.
Altra scelta dal valore fortemente simbolico da parte di Obama, è stata quella di far trapelare l'organigramma a poche ore da un faccia a faccia con Al Gore, l'ex vicepresidente divenuto un uomo-simbolo delle battaglie contro il cambiamento climatico. Resta invece ancora da riempire la casella del nuovo ministro della Sanità. In questo caso la scelta di Obama sembra sia caduta su Tom Daschle. La certezza si dovrebbe avere oggi, in occasione della conferenza stampa convocata dal presidente eletto per illustrare le politiche della sanità.
(11 dicembre 2008)

lunedì 8 dicembre 2008

W i tedeschi (quando fa comodo)

Signornò, M.Travaglio
dall'Espresso in edicola

Berlusconi scioglie Forza Italia dopo 15 anni con un discorsetto di mezz’ora. Veltroni annuncia la rottura con Di Pietro a “Che tempo che fa”, da Fabio Fazio, ma poi si scopre che era uno scherzo. D’Alema commissaria Veltroni e auspica un leader di nuova generazione a “Crozza Italia”, e il suo non è uno scherzo. Chissà l’invidia di Bruno Vespa, abituato a ospitare le svolte politiche a “Porta a Porta”. Partiti, leadership e alleanze nascono e muoiono in tv, senza congressi né dibattiti interni. Dopodichè, tutti a interrogarsi sul discredito della classe politica e sulle “grandi riforme” necessarie per uscirne. Ne basterebbe una piccola piccola, ma rivoluzionaria: una legge sulla responsabilità giuridica dei partiti, che regoli la democrazia interna e la gestione trasparente degli enormi finanziamenti pubblici. Non occorrono voli pindarici: basta copiare dalla Germania, dove i deputati guadagnano la metà dei nostri, sono uno ogni 112.502 abitanti (da noi, uno ogni 60.371), e i partiti devono rispettare regole ferree: l’articolo 21 della Costituzione del 1949 e la legge sui partiti del 1967.

Strano che D’Alema, grande supporter del modello (elettorale) tedesco, non ne parli mai. In Germania ogni partito, per essere tale, deve riunire il congresso almeno una volta ogni due anni, dandosi un programma, uno statuto e un vertice. E ha diritto a finanziamenti statali solo se supera il 5% dei voti alle elezioni europee o federali e il 10% alle regionali. Sennò, nemmeno un euro. I partiti devono pubblicare rendiconti annuali con le entrate (pubbliche e private) e le uscite. Come da noi. Solo che in Germania chi presenta bilanci nebulosi o falsi è costretto dal presidente del Bundestag a restituire tutti i fondi statali. E se un partito riceve soldi illegalmente, deve pagare una multa del triplo della somma incassata, più il doppio se non l’ha messa a bilancio. Le multe vengono poi devolute dal Bundestag a enti assistenziali o scientifici. I bilanci dei partiti sono equiparati a quelli delle società: se falsi o poco trasparenti, chi li firma rischia 3 anni di galera.

Con queste regole, i partiti italiani sarebbero fuorilegge o avrebbero già chiuso per fame. E molti dei loro tesorieri sarebbero in carcere. Da noi i congressi o non si fanno (Forza Italia ne ha tenuti due in 15 anni di vita); o, se si fanno, sono finti (si sa chi vince in anticipo) o finiscono in risse sulle regole malcerte, le tessere fasulle e l’uso disinvolto dei cosiddetti “rimborsi elettorali” (usati addirittura per stipendiare i leader). D’Alema, sempre da Crozza, ha spiegato il discredito dei partiti italiani con la presenza di “troppa società civile: medici, imprenditori, avvocati anzichè politici di professione”. Strano: Obama è avvocato ma, essendo popolarissimo, ha raccolto fondi da centinaia di migliaia di cittadini, senza prendere un dollaro dalle casse dello Stato. In Italia, senza i soldi dello Stato, i partiti sarebbero tutti morti: dagli elettori non prenderebbero un euro. E provare a darsi una regolata, o almeno qualche regola?

sabato 22 novembre 2008

Bocchino & pizzino

Zorro
l'Unità, 21 novembre 2008, M.Travaglio

Istruzioni per un centrosinistra moderno che vuole vincere.
1) Se si trova un candidato alla Vigilanza che non garba a Berlusconi, impallinarlo all'istante.
2) Se il Bocchino di turno non riesce a spiegare perché la maggioranza debba decidere anche le cariche che spettano all'opposizione, salvarlo con un pizzino.
3) Se Latorre telefona amorevolmente a Ricucci e a Consorte durante la scalata illegale al Corriere e a Bnl, fare finta di niente e negare ai giudici il permesso di usare le telefonate, cosicchè gli elettori possano pensare che destra e sinistra si coprono a vicenda ed è tutto un magnamagna. Se invece Latorre imbocca un Bocchino, chiederne la testa (sempreché si trovi).
4) Se D'Alema telefona a Consorte per trattare con un socio Unipol in cambio di «favori politici», negare insieme al centrodestra l'uso giudiziario delle intercettazioni, così il centrodestra chiederà in cambio il no alle telefonate tra Dell'Utri e un mafioso latitante.
5) Se Ligresti, pregiudicato per corruzione e dunque amico di Berlusconi, vuol fare affari in un comune governato dal centrosinistra, tipo Firenze, fargli ponti d'oro per portarlo dalla propria parte. Berlusconi non va combattuto, ma anticipato.
6) Anziché tener lontano da Firenze il corruttore Ligresti, cacciare dalla città i lavavetri e gli accattoni. Berlusconi non va combattuto, ma imitato.
7) Se poi si viene indagati, come l'assessore Cioni, per tangenti da Ligresti, gridare al complotto politico come un Berlusconi qualsiasi («Se non fossi candidato alle primarie di Firenze, mi avrebbero indagato lo stesso?»).
Perché Berlusconi non va combattuto, ma copiato.

mercoledì 19 novembre 2008

Editoriale di NATURE sulla università e la ricerca in Italia

Nature 455, 835-836 (16 October 2008) doi:10.1038/455835b; Published online 15 October 2008

Cut-throat savings

Abstract

In an attempt to boost its struggling economy, Italy’s government is focusing on easy, but unwise, targets.
It is a dark and angry time for scientists in Italy, faced as they are with a government acting out its own peculiar cost-cutting philosophy. Last week, tens of thousands of researchers took to the streets to register their opposition to a proposed bill designed to control civil-service spending (see
page 840). If passed, as expected, the bill would dispose of nearly 2,000 temporary research staff, who are the backbone of the country’s grossly understaffed research institutions — and about half of whom had already been selected for permanent jobs.
Even as the scientists were marching, Silvio Berlusconi’s centre-right government, which took office in May, decreed that the budgets of both universities and research could be used as funds to shore up Italy’s banks and credit institutes. This is not the first time that Berlusconi has targeted universities. In August, he signed a decree that cut university budgets by 10% and allowed only one in five of any vacant academic positions to be filled. It also allowed universities to convert into private foundations to bring in additional income. Given the current climate, university rectors believe that the latter step will be used to justify further budget cuts, and that it will eventually compel them to drop courses that have little commercial value, such as the classics, or even basic sciences. As that bombshell hit at the beginning of the summer holidays, the implications have only just been fully recognized — too late, as the decree is now being transformed into law.
Meanwhile, the government’s minister for education, universities and research, Mariastella Gelmini, has remained silent on all issues related to her ministry except secondary schools, and has allowed major and destructive governmental decisions to be carried through without raising objection. She has refused to meet with scientists and academics to hear their concerns, or explain to them the policies that seem to require their sacrifice. And she has failed to delegate an undersecretary to handle these issues in her place.
Scientific organizations affected by the civil-service bill have instead been received by the bill’s designer, Renato Brunetta, minister of public administration and innovation. Brunetta maintains that little can be done to stop or change the bill — even though it is still being discussed in committees, and has yet to be voted on by both chambers. In a newspaper interview, Brunetta also likened researchers to capitani di ventura, or Renaissance mercenary adventurers, saying that to give them permanent jobs would be “a little like killing them”. This misrepresents an issue that researchers have explained to him — that any country’s scientific base requires a healthy ratio of permanent to temporary staff, with the latter (such as postdocs) circulating between solid, well equipped, permanent research labs. In Italy, scientists tried to tell Brunetta, this ratio has become very unhealthy.
The Berlusconi government may feel that draconian budget measures are necessary, but its attacks on Italy’s research base are unwise and short-sighted. The government has treated research as just another expense to be cut, when in fact it is better seen as an investment in building a twenty-first-century knowledge economy. Indeed, Italy has already embraced this concept by signing up to the European Union’s 2000 Lisbon agenda, in which member states pledged to raise their research and development (R&D) budgets to 3% of their gross domestic product. Italy, a G8 country, has one of the lowest R&D expenditures in that group — at barely 1.1%, less than half that of comparable countries such as France and Germany.
The government needs to consider more than short-term gains brought about through a system of decrees made easy by compliant ministers. If it wants to prepare a realistic future for Italy, as it should, it should not idly reference the distant past, but understand how research works in Europe in the present.

Sulla fuga dei cervelli

di Renato Dulbecco

HO LASCIATO il mio Paese nel 1947, a soli 33 anni, per gli Stati Uniti, per poter sviluppare le ricerche scientifiche che mi hanno fatto meritare il Premio Nobel per la Medicina, molti anni dopo, nel '75. Oggi mi fa male vedere che, dopo oltre 60 anni, la situazione di crisi della ricerca scientifica in Italia non è cambiata, anzi. Lo dimostrano i più di mille ricercatori italiani sparsi per il mondo che hanno già riposto all'appello di questo giornale e che hanno dovuto, come me, lasciare il Paese per dedicarsi alla scienza. Il mio rammarico non è una questione di nazionalismo: la scienza per sua natura ignora il concetto di Patria, perché è e deve rimanere universale. Anzi, penso sia importante per uno scienziato formarsi all'estero e studiare in una comunità internazionale. Tuttavia dovrebbe anche poter scegliere dove sviluppare le sue idee e i frutti del suo studio, senza dover escludere del tutto il Paese dove è nato. Ciò che mi dispiace profondamente è toccare con mano l'immobilismo di un'Italia che sembra non curarsi della ricerca scientifica, esattamente come nel dopoguerra. Come se più di mezzo secolo di esplosione del progresso scientifico fosse passato invano. Chi vuole fare ricerca se ne va, oggi come ieri, per gli stessi motivi. Perché non c'è sbocco di carriere, perché non ci sono stipendi adeguati, né ci sono fondi per ricerche e le porte degli (ottimi) centri di ricerca sono sbarrate perché manca, oltre ai finanziamenti, l'organizzazione per accogliere nuovi gruppi e sviluppare nuove idee. Perché non esiste in Italia la cultura della scienza, intesa come tendenza all'innovazione che qui, negli Stati Uniti, è privilegiata in ogni senso ed è il motore del cambiamento.
Ciò che è cambiato concretamente, rispetto ai miei tempi, è che la ricerca scientifica, spinta dalla conoscenza genomica che è stata al centro del miei studi e oggi rappresenta il futuro, richiede molti più investimenti in denaro e persone rispetto a 60 anni fa. Si allungano così le distanze fra Paesi che investono e quelli che non lo fanno. L'Italia rischia, molto più che negli anni Cinquanta, di rimanere esclusa definitivamente dal gruppo di Paesi che concorrono al progresso scientifico e civile. Io sono uno scienziato e non ho la ricetta per salvare la ricerca italiana, ma proprio come "emigrato della ricerca " posso dire che i modelli ci sono, anche vicini ai nostri confini, senza guardare agli Stati Uniti, che sicuramente hanno una cultura e una storia molto diversa dalla nostra. Basterebbe iniziare a riflettere dal dato più semplice. Un Paese che investe lo 0,9% del proprio prodotto interno lordo in ricerca, contro la media del 2% degli altri, non può essere scientificamente competitivo né attirare a sé o trattenere i suoi ricercatori migliori.


da Repubblica.it (19 novembre 2008)

giovedì 6 novembre 2008

Io non ho paura

di Peter Gomez

Come governerà lo vedremo nei prossimi mesi. Anche se per lui la situazione non potrebbe essere peggiore: recessione, disoccupazione, una crisi finanziaria senza uguali, il pantano irakeno e quello afgano, lasciano presagire che la partenza di Barack Obama sarà in salita. Già ora però la sua elezione a presidente degli Stati Uniti scompagina molti giochi in quelle che, a torto o ragione, vengono considerate le province dell'impero americano. La vittoria di Obama segna infatti l'inizio del declino per le campagne elettorali basate sulla paura. Dimostra che si può ottenere consenso dai cittadini proponendo un mondo diverso: fatto di minori diseguaglianze sociali, di maggior rispetto per l'ambiente, di partecipazione.

A oggi è questa la novità di Obama. Ed è una novità che preoccupa una parte consistente del nostro governo. Le frasi infelici di Silvio Berlusconi "sull'abbronzatura" del neo-presidente, che riecheggiano direttamente quelle usate dal leghista Roberto Calderoli per zittire la giornalista Rula Jebreal, e quelle sconcertanti del capogruppo della Pdl al Senato, Maurizio Gasparri, sui brindisi di Al Qaeda per l'arrivo di Barack alla Casa Bianca, sono un segno di nervosismo. Dopo le manifestazioni per i tagli nella scuola, nella maggioranza cresce la sensazione di stare perdendo, a poco, a poco, la sintonia con il Paese. E adesso, messo alle spalle un ottobre d'inferno, novembre si apre con lui: un presidente afro-americano popolarissimo anche tra gli italiani che hanno votato centro-destra. Un presidente che, se manterrà anche solo in parte quanto ha promesso durante la sua indimenticabile campagna, finirà per fare mostrare la corda a tutta la politica nostrana.

Pensate solo alla questione clima: il centro-destra, senza troppo scandalo da parte del centro-sinistra, non vuole rispettare gli accordi internazionali sull'inquinamento. Sostiene che costano troppo alle nostre imprese. Ma cosa accadrà ora con Obama che garantisce di ridurre le emissioni di CO2 dell'80 per cento entro il 2050 e assicura che durante il suo mandato si punterà tutto sull'energia rinnovabile? L'Italia rimarrà schierata con i paesi dell'ex patto di Varsavia che vogliono continuare ad avvelenare il pianeta, o nelle prossime settimane farà precipitosamente marcia indietro? E, in ogni caso, quale sarà a quel punto la credibilità di Berlusconi?

Fare politica vuol dire immaginare il futuro. E Obama, per la sua età, la sua storia personale, il futuro lo rappresenta. Per questo l'attempato Cavaliere ricorda che «è giovane e bello» e si offre di dargli consigli. All'improvviso lui, come tutti gli altri leader che per ragioni anagrafiche o di carriera sono sulla scena da più di un quarto di secolo, sentono il peso degli anni. E hanno paura.

leggi anche:
"La destra nostrna e Obama" - di M.N.Oppo

Addio a Michael Crichton conosceva il segreto di una storia

NEW YORK - Forse l'ironia aveva preso il posto della sua sfrenata fantasia. E la sua fama di creatore di dinosauri clonati aveva superato la sua bravura di sceneggiatore. Chi ha letto Next, il suo ultimo romanzo, ci ha trovato pesci sponsorizzati da multinazionali e qualche citazione di un buffo presidente del Consiglio di un Paese lontano (l'Italia) alle prese con curiosi esperimenti sebacei. Chi è stato dipendente dalle prime stagioni di Er - Medici in prima linea (tuttora in corso), sa quale macchina perfetta fosse quella serie e quale rivoluzione portò nel linguaggio televisivo. E' morto all'improvviso, era malato da tempo, pochi lo sapevano. In Memoriam, Michael Crichton, 1942-2008, come semplicemente si legge sul suo sito Internet. Dove si annunciano funerali privati.

Basta qualche titolo per dare l'idea di chi fosse Crichton: Jurassic Park, Stato di paura, Preda, Sfera, Il mondo perduto, Congo. Romanzi spesso divenuti film, sceneggiature diventati successi di botteghino. Steven Spielberg, Dustin Hoffman, Sharon Stone, Samuel L. Jackson, Sean Connery, George Clooney (quando non era ancora George Clooney ma stava per diventarlo grazie a Crichton): quasi tutta Hollywood ha incrociato il suo genio. Agli Universal Studios di L. A. il parco a tema di Jurassic Park resta il monumento a una delle sue intuizioni più incredibili. E ogni giorno gli americani gli rendono omaggio facendo la cosa che probabilmente più rendeva felice Crichton: divertendosi. Divertirsi a navigare i laghi e i fiumi dove spuntano all'improvviso le creature preistoriche che avevano visto al cinema.

Anche se Next non ebbe il successo di suoi lavori precedenti, Crichton era una risorsa. Pensare a lui significava pensare una sola cosa: bestseller, 150 milioni di copie vendute, milioni di telespettatori, migliaia di persone al cinema. Molti si interrogavano sul suo successo, molti non lo capivano, molti probabilmente lo declassavano a scrittore di genere. Invece il segreto è semplice ed è sotto gli occhi di tutti. Crichton era un artigiano della sceneggiatura, conosceva, lui laureato in medicina, il segreto di una storia.

Un esempio. Il primo episodio di Er, 24 Hours. Medici che parlano tra loro, storie che si incrociano, uno che torna ubriaco e un altro, si capisce che è un suo amico, che lo sdraia su una barella a smaltire. Infermiere, una più inquadrata delle altre. Fuori, Chicago, la più bella città d'America. Dentro un medico con gli occhiali che non riesce a dormire più di pochi minuti prima che qualcuno lo svegli. Un problema in famiglia, la moglie vuole che lasci il pronto soccorso universitario per una vita e uno stipendio migliore. L'ubriaco si sveglia, è sobrio, lo vediamo all'opera. E' un pediatra, è bravo, maledettamente bravo, ma pieno di ombre. Uno studente appena arrivato. E' ricco, impacciato, viene travolto dalla mole di lavoro che un altro medico, un chirurgo, bravo, dannatamente bravo, gli somministra. Stop. Fermatevi e contate quante conflitti principali e secondari in pochi minuti Crichton ha tirato fuori con la sua idea.

Secondo esempio. Chi o che cosa teme oggi l'uomo? Multinazionali, manipolazioni genetiche, violazione della privacy, clonazioni clandestine, virus creati in laboratorio e dispersi o venduti chissà dove e chissà a chi. In poche parole che ci sfugga di mano tutto quello che abbiamo messo in piedi. Tutto troppo in fretta, tutto troppo difficile da controllare, troppi soldi che girano, troppi interessi e troppo opachi. Ecco i nuovi nemici che Crichton ha messo nelle sue storie. Le nostre paure, il cocktail tra quello che abbiamo inventato e quello che non siamo in grado per avidità, miopia, inadeguatezza di tenere a bada.

Questi sono i due elementi alchemici del segreto di Crichton: storie da raccontare e arte nel raccontarle. Aveva 66 anni, pensavamo che avesse ancora tanto tempo. Eravamo sempre in attesa di qualche sua nuova idea. Sicuri che ci avrebbe fatto ridere, piangere, pensare. In memoriam, Michael Crichton.

(5 novembre 2008), da Repubblica.it

lunedì 3 novembre 2008

From Brescia to Reggio


Da Brescia a Reggio Calabria
Così la Gelmini diventò avvocato
L'esame di abilitazione all'albo nel 2001.
Il ministro dell'Istruzione: «Dovevo lavorare subito»

Novantatré per cento di ammessi agli orali! Come resistere alla tentazione? E così, tra i furbetti che nel 2001 scesero dal profondo Nord a fare gli esami da avvocato a Reggio Calabria si infilò anche Mariastella Gelmini. Ignara delle polemiche che, nelle vesti di ministro, avrebbe sollevato con i (giusti) sermoni sulla necessità di ripristinare il merito e la denuncia delle condizioni in cui versano le scuole meridionali. Scuole disastrose in tutte le classifiche «scientifiche» internazionali a dispetto della generosità con cui a fine anno vengono quasi tutti promossi.

La notizia, stupefacente proprio per lo strascico di polemiche sulla preparazione, la permissività, la necessità di corsi di aggiornamento, il bagaglio culturale dei professori del Mezzogiorno, polemiche che hanno visto battagliare, sull'uno o sull'altro fronte, gran parte delle intelligenze italiane, è stata data nella sua rubrica su laStampa.it da Flavia Amabile. La reazione degli internauti che l'hanno intercettata è facile da immaginare. Una per tutti, quella di Peppino Calabrese: «Un po' di dignità ministro: si dimetta!!» Direte: possibile che sia tutto vero? La risposta è nello stesso blog della giornalista. Dove la Gelmini ammette. E spiega le sue ragioni.

Un passo indietro. È il 2001. Mariastella, astro nascente di Forza Italia, presidente del consiglio comunale di Desenzano ma non ancora lanciata come assessore al Territorio della provincia di Brescia, consigliere regionale lombarda, coordinatrice azzurra per la Lombardia, è una giovane e ambiziosa laureata in giurisprudenza che deve affrontare uno dei passaggi più delicati: l'esame di Stato.

Per diventare avvocati, infatti, non basta la laurea. Occorre iscriversi all'albo dei praticanti procuratori, passare due anni nello studio di un avvocato, «battere» i tribunali per accumulare esperienza, raccogliere via via su un libretto i timbri dei cancellieri che accertino l'effettiva frequenza alle udienze e infine superare appunto l'esame indetto anno per anno nelle sedi regionali delle corti d'Appello con una prova scritta (tre temi: diritto penale, civile e pratica di atti giudiziari) e una (successiva) prova orale. Un ostacolo vero. Sul quale si infrangono le speranze, mediamente, della metà dei concorrenti. La media nazionale, però, vale e non vale. Tradizionalmente ostico in larga parte delle sedi settentrionali, con picchi del 94% di respinti, l'esame è infatti facile o addirittura facilissimo in alcune sedi meridionali.

Un esempio? Catanzaro. Dove negli anni Novanta l'«esamificio» diventa via via una industria. I circa 250 posti nei cinque alberghi cittadini vengono bloccati con mesi d'anticipo, nascono bed&breakfast per accogliere i pellegrini giudiziari, riaprono in pieno inverno i villaggi sulla costa che a volte propongono un pacchetto «all-included»: camera, colazione, cena e minibus andata ritorno per la sede dell'esame.
Ma proprio alla vigilia del turno della Gelmini scoppia lo scandalo dell'esame taroccato nella sede d'Appello catanzarese. Inchiesta della magistratura: come hanno fatto 2.295 su 2.301 partecipanti, a fare esattamente lo stesso identico compito perfino, in tantissimi casi, con lo stesso errore («recisamente» al posto di «precisamente», con la «p» iniziale cancellata) come se si fosse corretto al volo chi stava dettando la soluzione? Polemiche roventi. Commissari in trincea: «I candidati — giura il presidente della «corte» forense Francesco Granata — avevano perso qualsiasi autocontrollo, erano come impazziti». «Come vuole che sia andata? — spiega anonimamente una dei concorrenti imbroglioni —. Entra un commissario e fa: 'Scrivete'. E comincia a dettare il tema. Bello e fatto. Piano piano. Per dar modo a tutti di non perdere il filo».

Le polemiche si trascinano per mesi e mesi al punto che il governo Berlusconi non vede alternative: occorre riformare il sistema con cui si fanno questi esami. Un paio di anni e nel 2003 verrà varata, per le sessioni successive, una nuova regola: gli esami saranno giudicati estraendo a sorte le commissioni così che i compiti pugliesi possano essere corretti in Liguria o quelli sardi in Friuli e così via. Riforma sacrosanta. Che già al primo anno rovescerà tradizioni consolidate: gli aspiranti avvocati lombardi ad esempio, valutati da commissari d'esame napoletani, vedranno la loro quota di idonei raddoppiare dal 30 al 69%.
Per contro, i messinesi esaminati a Brescia saranno falciati del 34% o i reggini ad Ancona del 37%. Quanto a Catanzaro, dopo certi record arrivati al 94% di promossi, ecco il crollo: un quinto degli ammessi precedenti.

In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 la Gelmini si trova dunque a scegliere, spiegherà a Flavia Amabile: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta, per fortuna poi modificata perché il sistema è stato completamente rivisto». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria».
I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme.

Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». Del resto, aggiunge, lei ha «una lunga consuetudine con il Sud. Una parte della mia famiglia ha parenti in Cilento». Certo, è a quasi cinquecento chilometri da Reggio. Ma sempre Mezzogiorno è. E l'esame? Com'è stato l'esame? «Assolutamente regolare». Non severissimo, diciamo, neppure in quella sessione. Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno. Così facevan tutti, dice Mariastella Gelmini. Da oggi, dopo la scoperta che anche lei si è infilata tra i furbetti che cercavano l'esame facile, le sarà però un po' più difficile invocare il ripristino del merito, della severità, dell'importanza educativa di una scuola che sappia farsi rispettare. Tutte battaglie giuste. Giustissime. Ma anche chi condivide le scelte sul grembiule, sul sette in condotta, sull'imposizione dell'educazione civica e perfino sulla necessità di mettere mano con coraggio alla scuola a partire da quella meridionale, non può che chiedersi: non sarebbero battaglie meno difficili se perfino chi le ingaggia non avesse cercato la scorciatoia facile?

Gian Antonio Stella

giovedì 30 ottobre 2008

Ho denunciato alle autorità competenti le parole di Cossiga

Con la seguente, vi porto a conoscenza che sabato mattina mi sono recato al commissariato di polizia di Lugo per denunciare le parole di Francesco Cossiga apparse sul Quotidiano Nazionale il 23 ottobre 2008.
Qualcuno doveva farlo.

Non possiamo permettere che la dignità degli italiani venga continuamente calpestata.
Sono ben conscio che il mio gesto rimarrà qualcosa di simbolico più che realmente efficace per contrastare tale sproloquio, ma se ognuno di noi si muovesse per fare ciò che è sua possibilità, forse qualche cosa potremmo cambiare, partendo dal basso.

Di seguito il video girato prima di entrare in commissariato, dove leggo integralmente quanto depositerò, in quanto non era naturalmente possibile filmare all'interno del commisariato:
http://it.youtube.com/watch?v=06d-9gCS1gI

Al momento attuale, è tutto depositato, non è ancora completamente attiva l'istanza in quanto i gentilissimi agenti mi hanno comunicato che anche per tutelare la mia posizione le cose andranno fatte seguendo i canali giusti, e per questo servirà circa una settimana.

Cordialmente sono a salutare.

Assirelli Luca

«Spesso abbiamo stampato la parola Democrazia. Eppure non mi stancherò di ripetere che è una parola il cui senso reale è ancora dormiente, non è ancora stato risvegliato, nonostante la risonanza delle molte furiose tempeste da cui sono provenute le sue sillabe, da penne o lingue. È una grande parola, la cui storia, suppongo, non è ancora stata scritta, perché quella storia deve ancora essere messa in atto.»
Walt Whitman

domenica 26 ottobre 2008

Shock nel sistema

[The Guardian], da Italia dall'estero

I tagli al budget e le riforme del sistema scolastico italiano hanno provocato un’ondata di proteste.

“Si tratta di una protesta davvero strana” riflette Teresa Bencetti in un caffé dietro l’angolo della scuola elementare di Roma Victor Hugo Girolami. Nessuno le ha proposto di rinunciare al proprio lavoro di insegnante di matematica e inglese, dice. Nessuno le ha proposto di ridurre il suo stipendio che, tolte le tasse, la lascia con 14,400€ circa annui. Ma il governo di centro-destra guidato da Silvio Berlusconi sta cercando di sottoporre il martoriato sistema scolastico italiano ad un terapia d’urto: la Bencetti e molte altre sue colleghe temono che produrrà più danni che risultati positivi.

La scorsa settimana studenti universitari e professori si sono uniti per la prima volta alla crescente ondata di proteste contro i tagli e le riforme imposte dal giovane Ministro dell’istruzione di Berlusconi, Mariastella Gelmini. Le critiche ritengono che le scuole torneranno indietro di almeno 30 anni. A seguito di manifestazioni e sit-in, la maggiore coalizione sindacale ha proclamato una giornata di sciopero generale per l’istruzione il 30 ottobre.

La posta in palio è altissima. Gli economisti sono tutti d’accordo nell’identificare uno dei motivi chiave per cui l’Italia è diventata, negli ultimi 10 anni, il fanalino di coda dell’Europa nel fatto che il sistema educativo non si sia adeguato alle esigenze di una società della conoscenza. “Non lo facciamo per noi stessi, ci interessa il futuro dei nostri alunni” dice Letizia Baldoni, che insegna italiano.

La Victor Hugo Girolami si trova nel quartiere di Monteverdi Nuovo che Paola Pandolfi, un’altra insegnante, definisce di “classe medio-alta”. Tuttavia la scuola non ha la banda larga e possiede solo una dozzina di computer per 500 bambini. I soldi non dovrebbero essere un problema. La patria natìa di Maria Montessori spende per i suoi alunni tra i 6 e gli 11 anni molto di più della media dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OECD). I soldi scarseggiano invece nell’educazione secondaria. Ma anche qui, la spesa media per studente è 5.700 euro, poco sotto la media della OECD.

Il nocciolo della questione è che le risorse a disposizione sono gestite male - o, meglio, in maniera non proficua. Circa il 79% del budget destinato all’istruzione viene divorato dagli stipendi. Tuttavia gli insegnanti non sono particolarmente ben retribuiti. Nella scuola elementare, guadagnano il 78% della media OECD (anche se hanno un carico di lavoro minore: 24 ore settimanali di base). Il problema è dunque che ce ne sono troppi. L’Italia è un paese caratterizzato da settimane corte, giornate lunghe e classi piccole, spesso in scuole di modeste dimensioni.

Paragoni a livello internazionale

L’educazione elementare, comunque, ottiene ottimi risultati se comparata a livelli internazionali. Uno studio della OECD pubblicato il mese scorso piazza l’Italia tra il quinto e l’ottavo posto secondo diversi criteri in una classifica che analizza le 30 nazioni più ricche. I problemi iniziano nella scuola secondaria. La performance degli adolescenti italiani nei test Pisa (programma internazionale di valutazione degli studenti) è stato un disastro. Nell’ultimo, fatto nel 2006, gli studenti sono stati i peggiori tra Spagna, Francia, Germania, Regno Unito e USA (anche se con enormi differenze di risultati tra il ricco nord e le zone meridionali più povere).

Durante gli ultimi anni si sono anche registrati dei disgustosi episodi di bullismo, violenza e molestie di insegnanti nei confronti degli alunni. Tali eventi, più di ogni altra cosa, hanno portato a parlare di una “emergenza istruzione”.

Gelmini, figlia di un maestro di scuola elementare, ha ottenuto l’incarico ad aprile prendendosi l’impegno di affrontare il problema. Ma, in un periodo in cui l’Italia ha difficoltà a restare nei limiti di budget imposti dalla comunità europea, il Ministro è anche costretta ad attenersi alle esigenze di un budget molto limitato. Il problema che sta affrontando dunque è notevolmente difficile - migliorare qualità e disciplina e, nel contempo, contenere le spese. Nessuno può accusarla di compiacenza. Non è passato neanche un giorno, da quando è diventata ministro, senza qualche titolo di giornale dedicato all’istruzione. La prima mossa del Ministro 35enne è stata annunciare una riduzione delle spese di 7,8 miliardi di euro.

In netto contrasto con quanto accade in Inghilterra, il grosso dei tagli sono stati diretti alle scuole elementari che sono in realtà l’unica parte del sistema che funziona (le università sono un problema ancora più spinoso delle scuole). Molte piccole scuole saranno costrette a chiudere - 260 solo nel Lazio, la regione in cui si trova Roma. Circa 87.000 posti di insegnante e 45.000 posti di insegnanti di sostegno verranno tagliati.

Il governo assicura che nessuno perderà il proprio posto di lavoro. I risparmi verranno ricavati nei prossimi 3 anni accademici attraverso le mancate assunzioni. Tuttavia, questa è una magra consolazione per le decine di migliaia di precari - insegnati giovani e senza contratto fisso le cui speranze di una carriera nel settore dell’istruzione saranno frustrate sino al 2012 e, in molti casi, abbandonate per sempre. Gli oppositori di questa politica del governo sostengono, tra le altre cose, che ciò ha ostacolato il ricambio generazionale degli insegnanti.

Attualmente, i genitori degli alunni delle scuole elementari hanno una sola scelta. Possono iscrivere i propri figli per cinque mattine e due pomeriggi a settimana: in questo caso i bambini dovranno fare più compiti a casa. Oppure possono optare per 40 ore. Il “tempo pieno”, come si dice, è molto utile per una famiglia in cui entrambi i genitori lavorano. La riforma Gelmini cancella questi sistemi sostituendoli con 24 ore a settimana.

Ma il cambiamento che ha acceso le polemiche - anche se non il dibattito, visto che è stato imposto al parlamento attraverso l’equivalente italiano della “ghigliottina” [per decreto legge, N.d.T.] - è stata la reintroduzione del sistema del “maestro unico” nelle scuole elementari come la Victor Hugo Girolami. Persino qualche alleato di Berlusconi, capeggiati dal leader della Lega Nord Umberto Bossi, si è mostrato contrario a questo provvedimento quando è stato reso pubblico.

La Pandolfi, che insegna storia dell’arte e italiano, adesso affronta la tremenda prospettiva di dover insegnare ad un’intera classe l’intera gamma di materie, incluse quelle di cui non ha una conoscenza adeguata. “Questo sistema esisteva 30 anni fa” dice. “Ormai, le materie che insegniamo sono molto più complesse. E molto più pesanti. Si ha bisogno di un ampio bagaglio di conoscenze per insegnarle in maniera adeguata.”

Il ritorno al maestro unico è solo uno degli elementi che il Ministro ombra dell’istruzione, Maria Pia Garavaglia, definisce criticamente “Operazione Nostalgia”. Così come molti italiani considerano compiaciuti gli anni ‘50 e ‘60 un’età aurea di crescita economica e stabilità politica, così hanno la tendenza a vedere le scuole del passato come una soluzione ai problemi del presente.

Voto in condotta

La Gelmini chiaramente condivide questa visione. Ha reintrodotto i voti di condotta, che erano stati aboliti 10 anni fa. Sta considerando la re-introduzione delle uniformi scolastiche. Ha inoltre invitato i presidi a promuovere i grembiulini, che sembravano destinati all’estinzione, così come è successo in altre nazioni dell’Europa occidentale, eccetto per le lezioni di arte. La Pandolfi è preoccupata dal fatto che qualsiasi beneficio che queste misure possono portare sarà spazzato via dall’abolizione dell’insegnamento a tempo pieno nelle scuole elementari. “Nelle zone meno agiate, il “tempo pieno” serve a tenere i ragazzi lontani dalle strade” dice.

La sofisticata interpretazione è che la Gelmini stia costruendo le fondamenta per chiedere maggiori risorse per affrontare il problema più difficile costituito dalla riforma della scuola secondaria. Un sondaggio dello scorso mese rileva che è stata il membro di governo più popolare, con un indice di approvazione del 66%. Ma il rischio è che, con l’Italia che si dirige ancora una volta verso una recessione che metterà a dura prova le finanze pubbliche, il tesoro chiuderà il rubinettouna volta che i tagli entreranno in vigore.

Giacomo Vaciago, professore di economia politica alla Università Cattolica di Milano, nonché uno delle maggiori autorità in materia di istruzione, è fortemente critico nei confronti del sistema attuale. Tuttavia crede che l’approcio del governo sia “ingenuo e conservatore”. “L’idea sembra essere che se torniamo al passato ritroveremo la vecchia qualità - un assunto alquanto ingenuo. La qualità è qualcosa che non si ottiene facilmente con grembiulini e disciplina.”

[Articolo originale di John Hooper]

Scuole fuori

[The Economist], da "Italia dall'estero"

I piani per riformare il sistema scolastico italiano provocano critiche.

L’Italia potrebbe essere sul punto di una recessione, ma il 2009 offre la promessa di una crescita senza precedenti per Siggi, un’impresa tessile vicino Vicenza nel nord est del paese. Siggi è il più grande produttore di grembiuli, o divise scolastiche. Un tempo molto diffuse nella scuola elementare italiana, sono passate di moda, come le boccettine di inchiostro. Ma a luglio il ministro dell’educazione Mariastella Gelmini ha puntato sulla reintroduzione dei grembiuli per combattere l’imbarazzo determinato da differenze di classe e di vestiti firmati fra gli alunni. La produzione di Siggi quest’anno ha quasi fatto il tutto esaurito e il suo presidente Gino Mara ha detto che “il prossimo anno ci potrebbe essere un vero e proprio boom” .

La decisione di far indossare il grembiule agli alunni è lasciata agli insegnanti di ruolo. Ció non figura in nessuno dei due disegni di legge per l’istruzione introdotti dalla Gelmini, ma è diventato un simbolo dei suoi sforzi volti a scuotere l’istruzione italiana. Le critiche sostengono che tutto ciò sia un vano tentativo di far tornare indietro l’orologio; i suoi sostenitori lo considerano un primo passo necessario per un sistema più equo ed efficiente.

Il 30 ottobre i contrasti da lei suscitati culmineranno in una giornata di sciopero degli insegnanti. I sindacati denunciano principalmente il programma di tagli volti a risparmio di quasi 8 miliardi di euro (11 miliardi di dollari). Questo include la perdita naturale di 87.000 posti di lavoro di insegnanti nel corso dei tre anni accademici fino al 2012 e il ritorno ad un sistema con un unico insegnante nella scuola elementare.

Se la riforma si limitasse solo a questo, si potrebbe rivelare disastrosa come i rappresentanti di sindacati ed opposizione prevedono (studi internazionali dimostrano che le scuole elementari sono l’unica parte dell’educazione italiana che funziona bene). Tuttavia è anche previsto che il 30% dei fondi risparmiati saranno reinvestiti nelle scuole. I sostenitori della Gelmini sperano che li riuserà per raddrizzare i paralizzanti squilibri nell’educazione, una delle più grandi debolezze economiche strutturali d’Italia.

Un problema è la grande quantità di insegnanti mal pagati, dice Roger Abravanel, autore di un recente libro sulla meritocrazia. “ Il numero di insegnanti per 100 studenti è uno dei più alti nell’OECD, Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico”. L’educazione, particolarmente nel sud, è stata spesso usata dai politici per il patronato politico e per la creazione di posti di lavoro. Questo potrebbe spiegare perché, nonostante studino più a lungo e in classi più piccole, gli studenti italiani delle superiori reggono malamente i confronti internazionali. “ Il nord è intorno alla media dei Paesi dell’OCSE, ma il sud è alla pari con l’Uruguay e la Thailandia” dice Abravanel. Giacomo Vaciago, professore di economia all’Università Cattolica di Milano, dice che anche se per il momento il dibattito è sui tagli, il grande problema è la qualità, che è a casaccio”.

Alla presentazione delle ultime riforme, al fianco della Gelmini il Presidente del Consiglio italiano Silvio Berlusconi ha promesso che, dal 2012, i migliori insegnanti otterranno un premio di € 7.000. Ma l’onorevole Vaciago è scettico sulla riuscita di questi piani. “L’attuale governo sta facendo tagli e sta sperando che il risultato immediato sia un aumento di qualità. Non vi è alcuna garanzia evidente che sarà così” ha commentato.

[Articolo originale]

venerdì 24 ottobre 2008

Gandhi, la scuola e le televisioni

di Peter Gomez

Non c'è nulla di casuale
nelle dichiarazioni seguite da smentita di Silvio Berlusconi sulla polizia nelle scuole. Il Cavaliere quando parla segue una strategia precisa. Da una parte vuole saggiare le reazioni dell'opinione pubblica abituandola a poco a poco all'idea che contro gli studenti si può utilizzare la forza, dall'altra tenta di distogliere l'attenzione dal nocciolo del problema: ai tagli di spesa nella scuola si è provveduto con un decreto legge senza consultare nessuno.

Il decisionismo, del resto, in giorni in cui cinque telegiornali su sei si limitano a fare da megafono del potere, paga. Quello che la maggior parte degli italiani hanno capito del decreto Gelmini è infatti semplice: alle elementari si ritornerà a mettere il grembiule e nelle classi si tornerà ad avere un solo maestro. Tutto il resto passa in secondo piano. Ovvio che in un paese di anziani come il nostro la controriforma, raccontata così, raccolga ampi consensi. Il grembiule (che oltretutto non è un'idea da buttar via) e il maestro unico riportano alla mente della gente i bei tempi andati. Tempi che, man mano si va avanti con gli anni, sono sempre migliori dei presenti.
Non bisogna quindi farsi ingannare dalle manifestazioni. Chi protesta, per quanto numerosi siano i cortei, per il momento rappresenta solo la minoranza dei cittadini. La situazione può però cambiare rapidamente. La controriforma, per come è stata concepita, è destinata a toccare ampi strati della popolazione, a incidere direttamente sulla vita delle famiglie. Ma, nella gran parte dei casi, non lo farà subito. Molti cambiamenti avverranno lentamente. Per questo Berlusconi si lamenta dei giornali e a parole sminuisce la portata degli interventi (il maestro unico, per esempio, nei discorsi del premier diventa maestro prevalente): il suo obiettivo è prendere tempo e far sì che non si conoscano troppo bene gli esatti contenuti delle nuove norme.

Col passare dei giorni e il crescere delle proteste la probabilità che si verifichi qualche incidente (quasi inevitabile quando migliaia di persone molto giovani scendono in piazza) aumenta. E gli incidenti, che Berlusconi con i suoi interventi sembra voler evocare, rappresenterebbero per lui una vittoria. Le tv ci metterebbero un secondo ad amplificarne la portata innescando una serie di reazioni a catena difficilmente prevedibili.

Che fare allora? Quattro cose: ricordarsi di Gandhi che con la non violenza liberò una nazione, non accettare provocazioni, organizzare proteste sempre più "mediatiche" che possano trovar spazio nei telegiornali, presentare poche e chiare controproposte. Che nel mondo della scuola e delle università si disperdano inutilmente molti capitali è un fatto. Che sia necessaria una razionalizzazione delle spese è un altro fatto (pensiamo, per esempio, alle norme che hanno consentito l'apertura di nuovi atenei in quasi ogni capoluogo di provincia e la creazione di corsi di laurea in materie che non permetteranno a nessuno di trovare occupazione).

Insomma anche manifestando studenti e docenti dovranno continuare a lavorare. Serve subito una piattaforma precisa. Un programma per punti sul quale il governo sia costretto ad aprire la discussione.

leggi anche:
"Conferenza stampa Veltroni - Fioroni in risposta al Ministro Gelmini ed al Premier" - da Radio Radicale

giovedì 23 ottobre 2008

Inquietante....

Dalla conferenza stampa di Silvio Berlusconi di ieri.

“Non permetterò l’occupazione delle università. L’occupazione di luoghi pubblici non è la dimostrazione dell’applicazione della libertà, non è un fatto di democrazia, è una violenza nei confronti degli altri studenti che vogliono studiare. Convocherò oggi il ministro degli Interni, e darò a lui istruzioni dettagliate su come intervenire attraverso le forze dell’ordine per evitare che questo possa succedere. La realtà di questi giorni è la realtà di aule piene di ragazzi che intendono studiare e i manifestanti sono organizzati dall’estrema sinistra, molto spesso, come a Milano, dai centri sociali e da una sinistra che ha trovato il modo di far passare nella scuola delle menzogne e portare un’opposizione nelle strade e nelle piazze alla vita del nostro governo”.

Da un’intervista rilasciata dal senatore Francesco Cossiga al quotidiano La Nazione.

Domanda - Presidente Cossiga, pensa che minacciando l’uso della forza pubblica contro gli studenti Berlusconi abbia esagerato?

Risposta - Dipende, se ritiene d’essere il Presidente del Consiglio di uno Stato forte, no, ha fatto benissimo. Ma poiché l’Italia è uno Stato debole, e all’opposizione non c’è il granitico PCI ma l’evanescente PD, temo che alle parole non seguiranno i fatti e che quindi Berlusconi farà una figuraccia.

D - Quali fatti dovrebbero seguire?

R - Maroni dovrebbe fare quel che feci io quand’ero Ministro dell’interno.

D – Ossia?

R - In primo luogo, lasciar perdere gli studenti dei licei, perché pensi a cosa succederebbe se un ragazzino rimanesse ucciso o gravemente ferito…

D - Gli universitari, invece?

R - Lasciarli fare. Ritirare le forze di polizia dalle strade e dalle università, infiltrare il movimento con agenti provocatori pronti a tutto, e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino i negozi, diano fuoco alle macchine e mettano a ferro e fuoco le città. Dopo di che, forti del consenso popolare, il suono delle sirene delle ambulanze dovrà sovrastare quello delle auto di polizia e carabinieri.

D - Nel senso che…

R - Nel senso che le forze dell’ordine non dovrebbero avere pietà e mandarli tutti in ospedale. Non arrestarli, che tanto poi i magistrati li rimetterebbero subito in libertà, ma picchiarli e picchiare anche quei docenti che li fomentano.

D - Anche i docenti?

R - Soprattutto i docenti.

D - Presidente, il suo è un paradosso, no?

R - Non dico quelli anziani, certo, ma le maestre ragazzine sì. Si rende conto della gravità di quello che sta succedendo? Ci sono insegnanti che indottrinano i bambini e li portano in piazza: un atteggiamento criminale!

D - E lei si rende conto di quel che direbbero in Europa dopo una cura del genere? In Italia torna il fascismo, direbbero.

R - Balle, questa è la ricetta democratica: spegnere la fiamma prima che divampi l’incendio.

D - Quale incendio?

R - Non esagero, credo davvero che il terrorismo tornerà a insanguinare le strade di questo Paese.


Da Pieroricca.org, col titolo "Istruzioni dettagliate"

La scuola, le banche, la Gelmini

Da Vanity Fair, 22 ottobre 2008

Sono belli e allegri i cortei di questi giorni contro la riforma della scuola ideata dagli staff dei ministri Tremonti & Brunetta e poi passata sotto banco, durante l’intervallo, alla ministra Mariastella Gelmini, che a ogni interrogazione in pubblico, e con notevoli occhiali, la difende a memoria.

Sono belli, allegri e irriverenti, come è giusto che sia (“taglia taglia e il bambino raglia”) in omaggio, anche, alla giovinezza. Sono persino educati. Infinitamente più educati di quanto non lo siano gli adulti, non solo i politici, che stanno (che stiamo) furiosamente scassando il mondo, incapaci di distribuire un po’ di riso, un po’ di medicine, un po’ di acqua pulita, un po’ di contraccettivi per alleviarne la deriva. Ma capacissimi di moltiplicare guerre e crolli finanziari. Consumi e fallimenti. Trovando in tre settimane migliaia di miliardi di dollari per salvare le banche, ma nulla, o quasi nulla, da decenni, per salvare qualche ragazzino africano dalla malaria e comprare dei banchi in più per gli scolari di Scampia.

Dicono che gli studenti ne sappiano poco o nulla della riforma della scuola e che protestino per niente. Il niente sarebbero i grembiulini, il sette in condotta, il maestro unico e magari le classi dell’apartheid padana. Ma se davvero fossero niente, allora perché la riforma? E se non prevedesse il taglio di classi, di scuole, di posti di lavoro, e di buon senso, perché affannarsi a vararla? Per licenziare un po’ di bidelli? Ma no, dice la signora Gelmini. La quale sa anche sorridere mentre spiega che tagliando qui e là si rimetterà ordine al disordine scolastico, ci sarà più disciplina e più premi ai meritevoli. La sua carriera lo dimostra. Le classi dirigenti lo dimostrano e il mondo che ne consegue pure. Sarà quel suo sorriso lieto a irritare i ragazzi più della riforma, oppure solo le bugie?

di Pino Corrias

martedì 21 ottobre 2008

Il Paese senza futuro

Sono tempi oscuri e minacciosi per i ricercatori in Italia. A sostenerlo non sono i “camici rossi” disseminati nei laboratori del nostro Paese e sempre pronti - a detta di certa stampa - ad attaccare il governo Berlusconi. Ma è la più autorevole rivista scientifica al mondo, Nature, in un editoriale nel fascicolo appena pubblicato. I motivi alla base della critica, per nulla velata, avanzata da Nature alla politica della ricerca del governo Berlusconi sono sia congiunturali che strategici.



Quelli congiunturali sono almeno tre. Il primo riguarda il blocco della procedura di stabilizzazione dei precari negli Enti pubblici di ricerca voluto dal ministro Renato Brunetta. Il blocco impedirà ad almeno 2.637 “stabilizzandi” - ovvero con titoli già maturati - non solo di avere contratto a tempo indeterminato, ma di poter continuare a lavorare nel mondo della ricerca pubblica. Chi non sarà stabilizzato sarà, di fatto, cacciato via, come ha denunciato ieri in una intervista all’Unità l’ex ministro dell’Università Fabio Mussi. Così, in un colpo solo, il Paese rinuncerà a quasi il 4% delle sue risorse umane nella ricerca, mentre il tutto il mondo l’universo dei ricercatori tende a crescere. In realtà il danno sarà ancora più grande. Perché il blocco voluto da Brunetta toglie la speranza di un lavoro stabile da decine di migliaia di altri precari, creando le premesse per una fuga di massa dei giovani dalla ricerca scientifica in Italia.

Il secondo motivo congiunturale (ma non troppo) riguarda il taglio dei fondi alle università e il blocco quasi totale del turn-over: in pratica nei prossimi 5 anni gli atenei italiani dovranno rinunciare a 4 miliardi di euro. Il che significa che ci saranno meno risorse a disposizione, materiali e umane, sia per la didattica che per la ricerca. Un rischio tanto più grave se si tiene conto che il governo ha deciso che i fondi per l’università e la ricerca potranno essere utilizzati per coprire le eventuali perdite del sistema finanziario.

Il terzo motivo congiunturale, sottolineato in maniera particolare da Nature, è il totale e singolare silenzio del ministro competente, la signora Mariastella Gelmini, che si limita ad assistere senza interferire alle decisioni politiche assunte in altra sede (dal minsitro del’Economia Tremonti e dal ministro della Funzione pubblica Brunetta). Di fatto nessuno, nel governo Berlusconi, difende le ragioni della ricerca.

La rivista Nature propone, poi, due motivi strutturali alla base della sua critica. La prima è l’indicazione, contenuta nella legge 133/08, che le università potranno trasformarsi in fondazioni private. A volerla prendere sul serio, questa norma rappresenta una svolta epocale: la conoscenza acquisibile mediante l’educazione terziaria cessa di essere in linea di principio un bene pubblico e diventa un bene di mercato, accessibile solo ai più ricchi. A volerla prendere come l’hanno presa i rettori, la norma sembra preludere a ulteriori tagli della risorse pubbliche a favore delle università.

Ma la principale ragione di critica fatta propria da Nature alla politica della ricerca italiana è il suo andare in direzione opposta rispetto alla strada indicata dall’Unione europea nel 2000 a Lisbona (l’Europa leader dell’economia della conoscenza) e ribadita nel marzo 2002 a Barcellona (investimenti in ricerca pari ad almeno il 3% del Pil entro il 2010). Quasi tutti i paesi europei sono lontani dalla soglia di Barcellona: la media europea è ora attestata all’1,8%. Ma nessuno - tranne l’Italia - sta diminuendo i suoi investimenti, pur essendo in coda al convoglio (l’Italia investe l’1,0% del Pil in ricerca).

L’economia della conoscenza è unanimemente considerata l’economia più solida per costruire il futuro (sostenibile) delle nostre società. Per realizzarla la ricerca scientifica (di base e applicata) e lo sviluppo tecnologico sono assolutamente necessari, ma non bastano. Occorre un intero “pacchetto conoscenza”, ovvero investimenti importanti nell’educazione (primaria, secondaria e terziaria), oltre che in ricerca. Ebbene, anche nel settore educazione l’Italia è più indietro degli altri Paesi. Secondo l’Ocse l’Italia investe nel “pacchetto conoscenza” il 5,4% del Pil, contro il 7,5% circa di Francia, Germania, Gran Bretagna e Giappone, o addirittura il 10% circa di Stati Uniti, Corea e Svezia.

Gli altri investono molto e tendono ad aumentare i loro investimenti in conoscenza. Noi investiamo poco e tendiamo a diminuire gli investimenti in conoscenza. Gli altri costruiscono nuovi e larghi ponti verso il futuro. Noi stiamo incomprensibilmente tagliando i piloni a quei pochi e stretti che ci restano.

di Pietro Greco, l'Unità,it

sabato 18 ottobre 2008

Nuova legge minaccia i posti di lavoro dei ricercatori italiani

Pubblico un altro articolo apparso sulla prestigiosa rivista "Nature" (forse la più autorevole testata giornalistico-scientifica) riguardante il terrificante futuro che aspetta i ricercatori italiani.

Mi chiedo, e vi chiedo: è mai POSSIBILE che in questo ca..o di Paese queste cose le apprendiamo da una rivista estera (Inglese) e non dai media nostrani??

Io sono sgomento.


Pubblicato Mercoledì 15 Ottobre 2008 in Inghilterra da "Nature"

Gli scienziati protestano per i tagli dei costi decisi dal governo.

Quasi 2.000 ricercatori italiani perderanno i contratti a tempo indeterminato loro promessi, a causa di una legge che dovrebbe entrare in vigore entro la fine dell’anno. Potrebbero dover abbandonare del tutto la ricerca pubblica.

La scorsa settimana, la Camera dei Deputati del nuovo governo di centro-destra di Silvio Berlusconi ha esaminato il disegno di legge, che mira a ridurre la spesa pubblica attraverso la razionalizzazione del servizio pubblico. Vari ricercatori si sono messi in vendita su eBay, come parte di una campagna che ha anche coinvolto decine di migliaia di manifestanti in corteo per le strade di Roma e di altre città.

La proposta di legge si oppone esplicitamente ad un’altra legge approvata dal precedente governo di centro-sinistra, secondo la quale i ricercatori precari da molto tempo potrebbero essere assunti in modo permanente, se adeguatamente qualificati. La legge proibisce inoltre che gli scienziati vengano assunti tramite una serie di contratti a breve termine, e coloro che sono già stati selezionati per l’assunzione a tempo indeterminato, avendo accumulato piú di tre anni di contratto negli ultimi cinque anni, saranno ora lasciati per strada.

Renato Brunetta, Ministro per la amministrazione pubblica e l’innovazione che ha progettato la nuova legge, ha fatto infuriare ulteriormente gli scienziati definendo molti dipendenti pubblici come dei “fannulloni”.

I ricercatori in Italia sono dipendenti pubblici e il numero di posti disponibili è determinato dal governo centrale, piuttosto che dai singoli enti di ricerca. L’ultimo decennio non ha visto quasi nessuna nuova assunzione e, di conseguenza, il numero di ricercatori con contratto temporaneo è schizzato alle stelle. Ci sono almeno 4.500 impiegati con contratti temporanei da molti anni - conosciuti come “precari”, in riferimento alla loro occupazione incerta - che si barcamenano tra un contratto a tempo determinato ed il successivo.

Gli scienziati dicono che la loro protesta non è diretta contro il sistema tradizionale del post-dottorato, bensí contro il malsano squilibrio tra posizioni precarie e assunzioni a tempo indeterminato. “Abbiamo uno squilibrio patologico perché le nuove assunzioni a tempo indeterminato sono state bloccate” afferma Luciano Maiani, presidente del CNR, il Consiglio Nazionale delle Ricerche italiano.

Come risultato delle proteste, Brunetta afferma che ai ricercatori sarà dato tempo fino al 1 luglio 2009, mentre lui esaminerà le loro richieste. Ma i presidenti dei vari enti di ricerca italiani ritengono che l’unica via d’uscita da questa situazione sia dare maggiore autonomia ai singoli enti sugli impieghi statali.

“Il governo deve riconoscere l’alta formazione professionale dei ricercatori - non è opportuno rientrare nel regolamento della categoria degli impiegati statali” spiega Enzo Boschi, presidente di Italia Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia.

Claudio Gatti è un fisico delle particelle presso l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare di Frascati, che sta per perdere il contratto a tempo indeterminato promessogli a causa della proposta di legge. Egli afferma che “nel sistema di ricerca italiano non c’è programmazione, mobilità e neppure futuro - ma siamo pronti a lottare per i nostri diritti con tutti i mezzi legali a nostra disposizione”.

Il Ministro della ricerca e dell’istruzione Mariastella Gelmini non ha commentato pubblicamente la situazione e non ha risposto alle richieste di commenti da parte di Nature.

[Vedi anche l'editoriale di Nature ]

[Articolo originale di Emiliano Feresin, Alison Abbott]

venerdì 17 ottobre 2008

Tagli spietati

Pubblicato Mercoledì 15 Ottobre 2008 in Inghilterra su [Nature], tradotto da Italia dall'estero

Nel tentativo di accelerare la sua arrancante economia, il governo italiano si concentra su obiettivi facili, ma sconsiderati. È un periodo buio e arrabbiato per i ricercatori in Italia, esposti ad un governo che mette in atto la sua strana filosofia per il taglio dei costi. La settimana scorsa, decine di migliaia di ricercatori sono scesi in strada per manifestare la loro opposizione ad una proposta di legge volta a frenare la spesa pubblica. Se passa, come previsto, la legge provocherebbe il licenziamento di quasi 2000 ricercatori precari, che costituiscono l’ossatura degli istituti di ricerca italiani perennemente a corto di personale - e metà di essi sono già stati selezionati per posizioni a tempo indeterminato.

Proprio durante la manifestazione dei ricercatori, il governo di centro-destra di Silvio Berlusconi, che è tornato al governo lo scorso maggio, ha deciso che i fondi di università e ricerca potrebbero essere usati per aiutare le banche e gli istituti di credito italiani. Questa non è la prima volta che Berlusconi ha bersagliato le università. Ad agosto ha firmato un decreto che tagliava i fondi universitari del 10% e ha permesso di coprire solo una posiziona accademica vuota su cinque. Ha anche permesso alle università di trasformarsi in fondazioni private per ottenere introiti aggiuntivi. Dato il clima attuale, i rettori universitari ritengono che l’ultimo passo sarà usato per giustificare ulteriori tagli ai fondi e che alla fine li costringerà a cancellare i corsi che non hanno grande valore commerciale, come gli studi classici o addirittura le scienze di base. La notizia è arrivata all’inizio delle vacanze estive, ma le conseguenze sono state comprese pienamente solo ora - troppo tardi, visto che il decreto sta per essere trasformato in legge.

Nel frattempo, il Ministro per l’educazione, l’università e la ricerca, Mariastella Gelmini, non si è espressa in merito a tutte le questioni relative al suo ministero tranne quella sulle scuole secondarie e ha permesso che decisioni governative consistenti e distruttive fossero eseguite senza fare alcuna obiezione. Ha rifiutato di incontrare i ricercatori e gli accademici per ascoltare le loro preoccupazioni o per spiegare loro le direttive che sembrano richiedere il loro sacrificio. Inoltre non ha neppure delegato un sottosegretario che si occupi di tali questioni al suo posto.

Le organizzazioni scientifiche colpite dalla legge sono tuttavia state ricevute dall’ideatore della legge, Renato Brunetta, Ministro della pubblica amministrazione e innovazione. Brunetta ritiene che si possa fare ben poco per fermare o modificare la legge, anche se è ancora in discussione nei vari comitati e deve ancora essere votata in entrambe le camere. In un’intervista ad un quotidiano, Brunetta ha paragonato i ricercatori ai “capitani di ventura” [sic N.d.T.], mercenari avventurieri del rinascimento, dicendo che dar loro un lavoro permanente equivarrebbe quasi ad ucciderli. Ciò mistifica un problema che i ricercatori gli avevano spiegato: che la ricerca di base di un paese richiede un adeguato rapporto tra il personale permanente e quello precario, con i ricercatori precari (per lo più post-dottorati) che si spostano tra laboratori di ricerca permanenti, stabili e ben equipaggiati. In Italia, come hanno tentato di spiegare a Brunetta, questo rapporto è tutt’altro che adeguato.

Il governo Berlusconi può anche ritenere che siano necessarie delle misure finanziare severe, ma i suoi attacchi alla ricerca di base italiana sono avventati e poco lungimiranti. Il governo ha trattato la ricerca semplicemente come un’altra spesa da tagliare, quando invece dovrebbe essere considerata un investimento per costruire l’economia del sapere del ventunesimo secolo. In effetti l’Italia ha già sposato questo concetto aderendo alla Strategia di Lisbona 2000 dell’Unione Europea, in cui gli stati membri hanno promesso di aumentare i fondi di ricerca e sviluppo (R&D) fino al 3% del loro prodotto interno lordo. L’Italia, un paese del G8, ha una delle spese in R&D più basse del gruppo, essendo appena dell’1.1%, meno della metà di quanto spendono nazioni comparabili come la Francia e la Germania.

Il governo non deve considerare solo i guadagni a breve termine attuati attraverso un sistema di decreti facilitato da ministri compiacenti. Se vuole preparare un futuro realistico per l’italia, come dovrebbe, il governo non dovrebbe riferirsi pigramente al passato, ma capire come funziona la ricerca in Europa oggi.

[Articolo originale]

mercoledì 15 ottobre 2008

Università Pubblica a Rotoli

A tutti gli utenti del blog:

Vista la tragica situazione a cui sta andando incontro l'Università pubblica vorrei potervi inviare un utile Power Point, chiaro e semplice che spiega i danni che apporterà la legge 133.

Chi fosse interessato lasci nei commenti la sua email e io glielo invierò!

Facciamo passaparola!

martedì 14 ottobre 2008

Il “dissanguamento” dell’accademia italiana

dal sito Italia dall'estero

[Deutschlandfunk] 8/10/08

Nuovo atto nel dramma delle università italiane.

Le università italiane si trovano di fronte ad una nuova ondata di tagli promossa dal governo Berlusconi. Una nuova legge impone che solo un posto di lavoro su cinque tra quelli liberati nelle istituzioni statali per via di pensionamenti potrà essere rioccupato. Una delle conseguenze è che i giovani laureati italiani che cercano di entrare nel mondo del lavoro fuggono all’estero.

“Tutto questo non è un caso. C’è una strategia precisa alla base. Si mira alla rovina delle università statali attraverso un taglio sostanziale dei finanziamenti in modo che le università private ne traggano vantaggio”.

Mariangela Staccani è una ragazza con una brillante laurea in chimica e un dottorato ottenuto con il massimo dei voti. Quest’autunno avrebbe dovuto iniziare a lavorare all’Università di Roma La Sapienza con un contratto di ricercatrice per tre anni. Nonostante gli esperti considerino la trentenne come una delle persone più qualificate tra i chimici della sua generazione, Mariangela è ora disoccupata. A causa dei limiti nelle assunzioni previsti dalla legge promulgata dal governo di centro-destra di Silvio Berlusconi, non può iniziare il lavoro che le era stato promesso:

“Questo è il primo atto della lunga storia verso la rovina delle università statali: in primo luogo si tagliano fuori i giovani ricercatori e poi (si) riducono i finanziamenti per la ricerca. In questo modo si dissangua tutto il sistema mentre fare ricerca diventa impossibile. Tutta la comunità scientifica si deve opporre.”

Ed è proprio questo che la comunità scientifica intende fare. Gli studenti, i giovani ricercatori e la Conferenza dei Rettori delle Università italiane si sono mobilitati contro le conseguenze dei nuovi tagli che si sono concretizzati all’inizio del nuovo anno accademico e sono ora evidenti in diversi settori.

La nuova legge sulle università prevede che per ogni cinque posti che si liberano per motivi di anzianità nelle istituzioni statali solo uno venga rioccupato. In questo modo, ha detto il ministro delle Finanze Giulio Tremonti, vero deus ex machina di questa legge, si potrà risparmiare molto. Infatti, secondo l’opinione del ministro, sono molte le istituzioni scientifiche statali ad avere più dipendenti del necessario. Questo è certamente vero in alcuni casi, ma lo stesso non può valere in generale per tutte le università, afferma Giancarlo Zavattini, vice rettore della Sapienza a Roma:

“Le nostre previsioni mostrano dove condurrà questo sistema. Se per ogni cinque professori o ricercatori che vanno in pensione solo uno verrà sostituito questo porterà invevitabilmente al dissanguamento del nostro corpo docenti. Conosco alcune università come quella di Benevento o del Molise, che nei prossimi anni non potranno liberare alcun posto. In tal modo queste università perderanno attrattivà tra i giovani accademici. Dove andranno allora i giovani ricercatori? A questa domanda, la nuova legge non dà risposta.”

Dall’entrata in vigore della nuova legge sulle università caute proiezioni mostrano come diverse centinaia di posti di lavoro per giovani ricercatori hanno dovuto essere eliminate. Il CENSIS, l’istituto di ricerca socioeconomica con sede a Roma, ha stimato che da settembre il numero di giovani laureati italiani che cercano lavoro in altri paesi europei e negli Stati Uniti è aumentato del 300% rispetto all’anno precedente. A riguardo, il sociologo Francesco Simoncelli ha commentato:

“Certamente gli studiosi devono pensare su scala internazionale, ma quello che sta succedendo in Italia a causa dei tagli imposti dalla nuova legge non è null’altro che un esodo di ricercatori verso l’estero. Potrei citare decine di casi di giovani scienziati, che avevano già i contratti di insegnamento e di ricerca in tasca ma che si trovano ora disoccupati. Stanno cercando di trasferirsi all’estero. L’italia intera ci rimette. E’ all’estero che beneficeranno del valore di questi giovani”.

[Articolo originale di Thomas Migge]

lunedì 13 ottobre 2008

Università, precari e studenti insieme contro il governo


ROMA - Il mondo delle università e della ricerca continua ad affilare le armi contro le politiche del governo in materia di istruzione. Oggi la protesta passa per Roma e Milano, ma in tutta Italia proliferano le iniziative che vedono studenti e precari insieme, contro i provvedimenti dell'esecutivo. Nel mirino delle proteste la cosiddetta "controriforma Gelmini", ovvero la legge 133 approvata il 6 agosto scorso - ex decreto Brunetta - e le sue norme sull'università: possibilità di trasformare gli atenei in fondazioni di diritto privato, tagli al fondo di finanziamento ordinario (un miliardo e mezzo di euro in 5 anni) e blocco del turn-over al 20 per cento (modulo 5 a 1: per cinque docenti in pensione ne entra solo uno). Stamane nella capitale, un corteo di "almeno un migliaio di studenti", dicono gli organizzatori, ha sfilato tra i viali della Sapienza per protestare, in particolare, "contro la privatizzazione dell'università". La manifestazione è stata avviata dai collettivi della facoltà di scienze (matematica, fisica, scienze naturali). "Il corteo cresce di momento in momento - hanno spiegato i collettivi -, stiamo entrando in tutti i dipartimenti della facoltà di scienze per bloccare le lezioni, poi faremo una grande assemblea sotto la statua della Minerva". A Milano una settantina di studenti ha occupato il rettorato della Statale. Fanno parte dei collettivi delle facoltà di Scienze politiche, Mediazione culturale, Accademia di Brera. Sono studenti della Statale, del Politecnico e della Bicocca. Un gruppo di manifestanti ha incontrato il rettore Enrico Decleva.
Gli studenti chiedono, in caso la legge 133 non venga abrogata, le dimissioni del rettore e del senato accademico, l'annullamento dell'inaugurazione dell'anno accademico a novembre, un pronunciamento chiaro sulla legge, la garanzia che non saranno aumentate le tasse universitarie né diminuiti i servizi. "Chiediamo anche che il senato accademico si esprima per il blocco immediato della didattica - dice Marco, uno degli occupanti - per dare a tutti gli studenti la possibilità di mobilitarsi". (13 ottobre 2008), da Repubblica.it

leggi anche:
"Sms e mail a Napolitano: non firmare la Gelmini" - da l'Unità

 
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