domenica 13 aprile 2008

Possibile volerlo davvero?


«Possibile che gli italiani vogliano davvero che sia un politico simile a governarli?».
La domanda angosciante e - fino a domani, priva di risposta - è di John Lloyd, giornalista inglese. Come molti di coloro che non hanno molta stima di Berlusconi in Europa, John Lloyd non è uomo di sinistra, meno che mai un militante di parte. È un editorialista del Financial Times di Londra che guarda l’Italia con lo stesso stupore di tutta l’Europa.
Possibile? «Trattando gli italiani come un pubblico da sollazzare, illudendolo a pensare che ogni errore è imputabile alla sinistra, Berlusconi perdura nell’usare uno stile politico che dimostra tutti i suoi anni, e la pretesa che l’Italia resti ferma nel tempo. È lì che gli italiani vogliono stare?» (traduzione de la Repubblica, 4 aprile).
C’è in ciò che scrive il giornalista inglese un genuino senso di partecipazione all’angoscia di una parte degli italiani (grande, crediamo). Eppure tutto ciò era stato scritto quando l’uomo di Arcore sembrava dilettarsi a farci credere, come in un brutto film, al suo intenso traffico con donne giovani, un assortimento di vallette e candidate che avrebbero dovuto piazzare i riflettori (con la dovuta cautela) sul suo volto, che ritiene irresistibile. Erano i giorni in cui non trovava di meglio che fingersi indifferente e genericamente insultante (è il suo stile quando è “buono”) di fronte alle piazze calde e affollate di Walter Veltroni. Gli stessi giorni in cui il suo aiutante di campo Gianfranco Fini si arrabbiava di fronte a cinema vuoti che avrebbero dovuto ospitare i suoi comizi.
E le scaltre telecamere dei vari telegiornali (”tutti di sinistra”) riuscivano a non farci vedere i vuoti nelle piazze di Berlusconi. Ricorderete che l’uomo che si candida per la quinta volta, sperando di avere una seconda occasione di governare per cinque anni l’Italia, era “entrato in pista” tentando invano il salto di Benigni, e spiegando a tutti di essere sostenuto da 10 (dieci) punti di distacco dalla sinistra. Come dire, “è cosa fatta”.
Ma qualcosa deve essere accaduto (“l’erosione del distacco” propone Ezio Mauro nel suo editoriale del 10 aprile) perché all’improvviso, dalla sua parte politica, c’è stata una violenta caduta di massi che ha colto molta gente di sorpresa, una brutta sorpresa persino se viene da Berlusconi. Una sorpresa che probabilmente avrà colpito e impressionato anche elettori che si preparavano a restituirgli il mandato di governare da destra. Se è stata l’erosione del distacco a provocare la strategia rabbiosa che Berlusconi, Bossi e i suoi hanno rovesciato sull’Italia in questi giorni, in queste ore, allora devono avere visto un buco di consensi che ha messo paura. Vediamo. Prima viene Umberto Bossi, il 5 aprile. Si fa trovare al giuramento di Pontida, una penosa messa in scena con figuranti vestiti da guerrieri che devono dire, a nome del prossimo governo italiano, queste parole da avanspettacolo: «Oggi, sul sacro suolo di Pontida, noi rappresentanti dei Popoli Padani, giuriamo di difendere la libertà dei nostri Popoli Padani (scusate la ripetizione, ma è proprio così nel testo del giuramento, ndr) dal potere romano e ciò faremo giurare ai nostri figli». Bossi dovrebbe leggere. Ma rinuncia, butta via il foglietto e improvvisa, ispirato dai buoni sentimenti che animano lui e la Lega Nord di Calderoli, Castelli e Borghezio: «Attaccheremo. E tutti insieme sferreremo un colpo mortale al centralismo della canaglia romana».
Poiché la sequenza di ciò che stiamo raccontando è rapida e aggrovigliata e i vari protagonisti sembrano a volte intenti ad essere cattivi, a volte soprattutto confusi, occorre precisare che siamo ancora nella fase in cui Bossi è già stato designato dal monarca di Arcore quale “ministro delle riforme” del governo “che sta per venire”. Evidentemente la spinta violenta e la messa in scena teatrale dei leghisti, unici veri e fidati sodali del monarca (gli altri o li ha cacciati o li ha sottomessi alla sua diretta dipendenza) ha creato un desiderio di emulazione al peggio. E scoppia subito (6 aprile) la solenne denuncia dei brogli. Per denunciarli Berlusconi invoca “il precedente” del 2006, quando era lui il capo del governo e Pisanu (che invece di stare al Viminale, ha passato la notte a casa di Berlusconi) era il ministro dell’Interno.
Non si ha notizia, neppure nelle conflittuali repubbliche del Kenya e dello Zimbabwe, di un governo che accusi di brogli l’opposizione, perché è impossibile. Ciò che avviene durante una elezione è responsabilità esclusiva di chi controlla il governo. E infatti le accuse di broglio muovono sempre in senso inverso.
Ma non si deve dimenticare che - per lo strano e inedito caso italiano - l’accusa viene da un ex capo di governo che aveva montato la Commissione parlamentare di inchiesta detta “Telekom Serbia”, affidata alle informazioni di un ben retribuito falsario e calunniatore, successivamente arrestato e incriminato (per falso) dalla magistratura.
L’accusa viene da un ex capo di governo che aveva montato la Commissione parlamentare di inchiesta detta “Mithrokin”, costituita allo scopo di dimostrare, con testimoni a pagamento e un consulente che è stato un vero costo della politica (prima della prigione per falso) che Prodi era uomo del KGB. L’accusa viene da un ex capo di governo che aveva messo sotto spionaggio militare almeno un centinaio di magistrati e giornalisti che dovevano essere “disarticolati”. Illegale? Illegale.
Naturale che a una persona così venga in mente di buttare avanti in anticipo l’accusa di brogli, opera di comunisti abilissimi, capaci di estrarre e riporre a piacimento le schede nelle urne repubblicane. Quanto questo giovi all’immagine dell’Italia-Zimbabwe è facile immaginare. Però non basta. Il colpo di Berlusconi offre una nuova spinta a Bossi. Che sarà senza voce ma ha prontamente dichiarato: «Andremo con i fucili a stanare la canaglia romana». Siamo tra il 6 e il 7 aprile e la bordata dei fucili padani viene affrontata con tono padronale da Berlusconi: «Beh, la salute di Bossi è quella che è».
* * *
Nessuno saprà mai, in questo Paese semi-civile, quali sono le condizioni di salute di Bossi, che stava per diventare titolare di un ministero chiave, e che in ogni altro Paese dovrebbe dare, da persona pubblica e da capo di partito, notizie precise e documentate sulle sue condizioni di salute. Per fortuna la signora Bossi fa sapere ai giornali che «lui sta bene, benissimo», e la sua dichiarazione ci deve andar bene come se Bossi fosse un vicino di condominio a cui fare i migliori auguri. Ma non siamo che all’inizio. Forse per riequilibrare l’impressione della minaccia di creare bande armate, Berlusconi fa sapere (8 aprile) che, con il suo nuovo governo, ci sarà una legge che obbligherà i magistrati a test periodici sulla salute mentale.
Si può immaginare la risonanza europea di una simile dichiarazione, la portata di diffamazione del proprio Paese da parte di un candidato molto ricco, molto potente, molto indagato, e scampato a sentenze di condanna solo grazie a ritocchi apportati ai codici dai suoi avvocati diventati legislatori nel partito dell’indagato.
Ha scritto lo Herald Tribune del 12 aprile: «Ormai il settantunenne Berlusconi dice a ruota libera la prima cosa che gli viene in mente. Ma probabilmente Berlusconi pensa davvero che i magistrati che hanno osato incriminarlo varie volte devono essere matti». Infatti, subito dopo lo shock, impossibile non notare la minaccia e il ricatto: le verifiche sullo stato mentale del giudice saranno “periodiche”. Ovvero dopo ogni sentenza sgradita. A meno che significhino: bisogna essere matti per rischiare la vita ogni giorno contro mafia, ndrangheta, camorra, per salvare l’Italia nonostante Berlusconi, i suoi “valori”, i suoi dipendenti mafiosi.
Ma lo stesso giorno interviene Dell’Utri, proprio lui, Dell’Utri Marcello, condannato a nove anni per reati di mafia e ricandidato al Senato della Repubblica. Interviene con due argomenti che cadono addosso all’Italia e al suo prestigio come un colpo violento. Prima dichiarazione.
Lui, Dell’Utri, un uomo con quel passato, annuncia che, se vince Berlusconi e la sua gente, i suoi fucili, i suoi test psichiatrici per magistrati pazzi, tutti i libri di storia saranno sottoposti a rigorosa censura affinché scompaia ogni traccia di antifascismo.
E propone che, al posto dei caduti delle Fosse Ardeatine, si celebri come un eroe nazionale il boss mafioso e pluriassassino Mangano, già amico e collaboratore di Berlusconi e dell’Utri e - sia pure nell’ombra - co-fondatore di Forza Italia.
La ragione di tanto eroismo di un imputato di alcuni omicidi, condannato a due ergastoli? «È morto in prigione piuttosto che parlare ai giudici di Berlusconi e di me», precisa Dell’Utri.
Interessante dichiarazione. Significa: “se Mangano parlava eravamo finiti” . C’è da capirlo. Un vero eroe. Berlusconi, il candidato primo ministro d’Italia, conferma e rafforza il giudizio: «Un vero eroe». Ma può una persona, che non si è mai sottoposta a test per la salute mentale, dire in pubblico e in piena campagna elettorale una cosa simile, ovvero stabilire una volta per sempre un saldo legame omertoso con un importante boss della mafia siciliana, condannato all’ergastolo per molti omicidi?
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Intanto avvengono cose che stupirebbero il resto del mondo democratico. Per esempio. Calderoli dice: «Non vi vanno bene i fucili? Useremo i cannoni». Come se non sapesse, lui che è stato sempre molto vicino a Milosevic e ai feroci comandanti serbi, che la guerra civile nella ex Jugoslavia è iniziata con parole come quelle sue e di Bossi.
Per esempio. Il generale Speciale, l’ex comandante della Guardia di Finanza, rimosso per incompatibilità (in altri tempi si sarebbe detto per ribellione), noto per il trasporto, su e giù per la penisola, di spigole fresche con aerei di Stato, fa sapere, con il linguaggio di un Sud America pre-democratico ormai scomparso: «Molti ufficiali appoggiano la mia candidatura. Chi mi ha tradito la teme». Squisito esempio di integrità militare, moralità repubblicana e di rispetto della Costituzione. Speciale sente aria di Pinochet. È a questo punto, di fronte a questa marea montante di fango, che il candidato premier del Partito Democratico Veltroni ha scritto una lettera in cui propone agli avversari un patto di lealtà democratica.
Giustamente Veltroni pensa che non tutti, persino a destra, siano cloni di Dell’Utri e del generale Speciale. E propone, nella sua lettera quattro punti che sono, allo stesso tempo, il minimo che si può chiedere alla comune partecipazione alla democrazia, ma anche il massimo di una garanzia reciproca. È un testo semplice, su un piano totalmente diverso da quello dei programmi e delle idee di schieramento.
I punti sono: unità e indivisibilità del Paese, rinuncia alla violenza, fedeltà a tutti i punti della prima parte della Costituzione, riconoscimento e rispetto della nostra Storia, della nostra identità nazionale, a cominciare dal tricolore.
Questa semplice e limpida richiesta di un candidato italiano alla guida del Paese è stata dichiarata “irricevibile” dalla destra in un tumulto di sberleffi, commentata a lungo da Berlusconi e dal suo coro, diretto dall’assistente Bonaiuti, nel silenzio penoso di Fini, come un tipico inganno dei comunisti. È enorme, lo so. Ma non è tutto. Manca ancora (9 aprile) la intimidazione contro il Capo dello Stato.
Deve andarsene e lasciare libero il posto per il nuovo arrivato «perché altrimenti la sinistra si è presa tutte le istituzioni. Solo se Napolitano se ne va, si può concedere all’opposizione la presidenza di una della Camere».
Si noti il percorso contorto, oltre che offensivo, dell’assurdo discorso. Tutto ciò, infatti, avverrebbe in caso di vittoria della destra. Dunque la destra avrebbe tutto in mano.
L’idea che una delle Camere possa essere presieduta da una personalità dell’ opposizione viene dai tempi dell’Italia della guerra fredda.
Ma adesso Berlusconi dice che, oltre alla vittoria e al controllo di tutto, vuole anche il Quirinale. Tutto ciò lo avevamo raccontato, esattamente come poi è avvenuto in questi tetri giorni, nell’editoriale de l’Unità di domenica scorsa. Ma avere previsto il peggio, con Berlusconi e a causa di Berlusconi, non è motivo di vanto. Semplicemente conferma che il peggio - da Berlusconi - può sempre venire, nonostante il peggio già dato.
A meno che gli italiani, compresi coloro che pensano che sia una buona cosa non votare, non decidano di salvare il Paese e se stessi.
Lo ha ripetuto Marco Pannella dallo “Studio aperto” di Radio Radicale la sera di venerdì 11 aprile, in una diretta durata tutta la notte, che ha invaso anche il giorno successivo. «Non fatevi troppe domande inutili» - ha detto il leader radicale - che pure lamenta il trattamento sgradevole riservato ai candidati radicali nelle liste del Pd da parte dell’ex ministro Fioroni, a sua volta candidato ed esponente del Partito democratico. Ha continuato a ripetere Pannella: «La scelta è tra Veltroni e Berlusconi.
Abbiamo bisogno che riprenda la vita politica in questo Paese. Perché accada bisogna dire no a Berlusconi e votare Veltroni».
Questa è una storia che riguarda ciascuno di noi. Come il fascismo. E non c’è alcuna ragione di fingere che sia utile o anche solo possibile distrarsi.
Si tratta di scegliere tra Falcone e, Borsellino da una parte e lo stalliere assassino Mangano dall’altra. Tra Veltroni che governerà con ragionevolezza un Paese secondo le normali tradizioni democratiche del mondo libero, e il “principale avversario” che non ci darà pace in nome dei propri esclusivi interessi, tra le istituzioni invase del Paese (compresa la Presidenza della Repubblica) e la volontà di possesso di ogni posto di comando del più celebre imputato d’Europa.
La domanda è: domani sera saremo al di sopra o al di sotto di ciò che il mondo attende (e teme) per il nostro destino?

Furio Colombo - L'Unità 13/04/2008

Dario Fo: Andate a votare - L'Unità 13/04/2008

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