giovedì 22 maggio 2008

23/05/1992


Domani riocrrono i 16 anni dalla scomparsa, durante l'attentato di Capaci, di Giovanni Falcone. Per ricordarlo pubblico un'articolo molto intenso di Roberto Scarpinato (Procuratore Aggiunto a Palermo) scritto proprio per questa occasione sei anni or sono, ma che vale la pena di rileggere.


In memoria delle vittime di Capaci - R.Scarpinato


In questi giorni a tratti mi veniva da pensare che il modo migliore di commemorare le vittime di Capaci sarebbe stato quello di organizzare una manifestazione in cui il protagonista assoluto fosse il silenzio. Immaginavo delle persone che si riuniscono in un teatro dove la scena e vuota e dove il pubblico rimane in silenzio non per i pochi minuti previsti dal cerimoniale, ma per ore, per quel numero di ore che in genere viene riempito dalle parole. Vi sono dei casi in cui il silenzio diventa una forma di etica della comunicazione, il modo per dire, con l’astinenza dalle parole, quello che le parole non riescono più a dire o non possono.

Un modo per conservare dei valori, valori importanti di giustizia, verità e buon senso. In un intervista ad un giornale in questi giorni Rita Borsellino ha detto “Chi c’è oggi alle manifestazioni, alle commemorazioni? Sono rimasti quelli delle auto blu, il vestito blu, presenze obbligate, gente che non vede l’ora che sia tutto finito, anche quest’anno abbiamo ricordato Falcone e Borsellino; fatto”. E proprio ieri mi diceva: “Queste commemorazioni sono diventate un po’ come il natale e anneghi nella stessa tristezza che viene a natale.” Questa frase mi ha fatto riflettere: perché a volte a natale diventiamo tristi? Per 364 giorni l’anno viviamo la vita in una corsa dominata dall’egoismo, dalla sopraffazione, dalla competitività che ci spreme come limoni e poi a natale si recita tutti insieme la commedia falsa del buonismo, degli abbracci dei baci sotto l’icona dimenticata di un gesù bambino, icona comprata e venduta da vecchi e nuovi mercanti del tempio.

E così, in queste commemorazioni delle stragi per 364 giorni l’anno ci mettiamo sotto i piedi la cultura della legalità e pi il 23 maggio e il 19 luglio si pretende di celebrare la cultura delle legalità; si dicono parole che sono farse perché incoerenti con la realtà e con le pratiche di vita. Sì, ha ragione Rita Borsellino: molti, troppi uomini dalle auto blu adempiono un rito stanco e la gente sempre più gente avverte istintivamente il carattere retorico di queste manifestazioni. Una gincana di parole al termine della quale veniamo restituiti alla stessa indecenza. E allora mi veniva da pensare che forse la via era quella di una manifestazione in cui fosse protagonista il silenzio, un silenzio che dura ore e che vuol dire più di mille parole.

Un silenzio che dice ad esempio che le cose più importanti sono quelle che non vengono dette e non si possono dire, le cose oscene che restano fuori dalla scena. La parola “osceno” significa fuori dalla scena. Da sempre il potere, il potere reale, è osceno, vive e si esercita fuori dalla scena del visibile sulla scena vi è solo la rappresentazione delle maschere del potere, dei suoi riti; è nelle segrete stanze, nella trama sotterranea dei rapporti personali che si esercita il potere.

Tanto più la democrazia si svuota tanto più lo spettacolo rappresentato sulla scena è falso, diventa la versione ufficiale e cloroformizzatala della realtà autorizzata e filtrata dal potere; e che il potere reale agisca fuori dalla scena Giovanni Falcone fu tra i primi a comprenderlo e a viverlo sulla propria pelle. Quando – come è stato ricordato – Tommaso Buscetta gli disse che di certe cose non si poteva parlare perché nel paese non vi erano le condizioni politiche e culturali, devono restare oscene, fuori dalla scena. E dopo l’attentato all’Addaura Giovanni Falcone comprese e misurò che proprio il potere dell’osceno, ciò del potere che non si manifesta e che agisce oggi con la maschera dei macellai di Cosa Nostra e ieri dietro la maschera degli stragisti di destra e domani chissà. È proprio sul terreno dell’osceno che si giocava la partita della sua vita e della sua morte all’interno di quello che lui definiva “il gioco grande”, il gioco osceno del potere che inghiotte chiunque voglia metterlo sulla scena.

E forse proprio per questo motivo che sulla scena dei processi –ieri come oggi – finiscono solo gli esecutori materiali delle stragi e degli omicidi eccellenti. Dalla strage di Portella della Ginestra, alla strage di Piazza Fontana, a quella di Brescia, di Bologna, fino ad arrivare ai nostri giorni, i mandanti in doppio petto restano sempre fuori scena. La storia della giurisdizione è la storia dell’eterna impotenza e dell’eterna sconfitta della giustizia democratica, della giustizia uguale per tutti, davanti al potere osceno. E se qualcuno tenta a volte di portare sulla scena il potere accade che improvvisamente su quella scena principale cala l’oscurità, il silenzio e mille riflettori si accendono improvvisamente su chi osa indagare sul potere, mettendo lui in scena come artefice del male.

Questo improvviso cambiamento di scena Falcone fu costretto a viverlo tante volte. Quanti di quelli che oggi lo ricordano lo misero in scena, come ammalato di protagonismo, artefice di oscure trame, fino al punto di accusarlo di aver utilizzato Contorno in Sicilia come killer di stato; oppure di avere utilizzato un falso attentato all’Addaura per fare carriera e risalire la china della notorietà. E quanti dopo di lui hanno vissuto la stessa sorte, ostracizzati, spezzati, lasciati soli per viltà, per opportunismo,per semplice smarrimento della memoria, ridotti al silenzio.

E per tornare all’immagine di donne e uomini che restano in silenzio per ore, io credo che quel silenzio dovrebbe ospitare e dire i tanti silenzi che in questi anni sono cresciuti. Il silenzio di chi in questi giorni è costretto ad assistere impotente ad uno spettacolo in cui la mafia ha messo in scena il seguente: “Cos’è la mafia? Cos’è la mafia nel 2002? Una storia di bassa macelleria criminale, fatta di contadini semi-illetterati che puzzano ancora di stallatico. Noi, colletti bianchi, noi brave persone con questa storia non c’entriamo nulla, anzi siamo state vittime tre volte: vittime della violenza mafiosa, vittime poi delle calunnie dei collaboratori, vittime infine dei magistrati che, non avendo la professionalità di Falcone, nel migliore dei casi si sono fatti abbindolare.”

Questa è la storia pacificata che ci andiamo a raccontare. Una storia oscena, nel senso che lascia fuori scena il lato ombra, la parte oscura di una società che non ha la maturità democratica e culturale per fare i conti al di là delle responsabilità penali dei singoli, con il proprio difficile passato e che non esita a strumentalizzare i morti contro i vivi e a rifugiarsi ogni alibi o di calare una saracinesca di silenzio su questo passato. Il ritratto segreto di Dorian Grey resta dunque in soffitta nel fuori scena, anzi il ritratto deve essere lacerato perché è falso perché dipinto da magistrati falsificatori o pittori della domenica.

Qualcuno ha osservato che la storia non è mai semplice narrazione di eventi ma rappresentazione del passato in funzione del potere del presente. Forse per controllare il presente oggi è necessario raccontare così la storia della mafia. E dunque dopo tanti morti, dopo tanto sangue, dopo tanto dolore, raccontiamocela così questa storia, come una storia infantile di orchi cattivi da una parte di bambini innocenti come nella casa di Hansel e Gretel dall’altra: alla fine l’orco cattivo è stato sconfitto e i bambini possono mangiarsi la casa di pan di zucchero come meritato premio. Anzi no, qualcuno deve essere messo in castigo, quelli che avevano detto che l’orco no stava soltanto fuori dalla casa ma anche dentro,mascherato da bravo bambino.

E per tornare al silenzio, penso al silenzio di tutti quei giovani magistrati che dopo le stragi sono venuti qui da tutte le parti d’Italia e che hanno lavorato in silenzio in questi anni dando testimonianza di impegno e di testimonianza e che in quest’ultimo periodo hanno deciso di ritornare nei luoghi d’origine non perché la loro missione fosse compiuta ma perché ogni giorno di più sembrava svuotarsi di senso, di impegno e di sacrificio quotidiano. E che dunque con dolore, con sofferenza, hanno scelto di riprendersi la propria vita e tornare dai propri cari, dai propri affetti. Quanti magistrati ho visto andare via così, con le lacrime agli occhi! Il silenzio di quei magistrati della procura che sono rimasti e che continuano a lavorare nel chiuso delle loro stanze, nutrendosi dei ricordi di un tempo in cui sembrava che l’intera società civile dovesse svoltare definitivamente quella pagina. I corridoi della Procura la sera sono vuoti, non perché i magistrati se ne stiano a casa, ma perché ciascuno di noi si sente solo, chiuso nella stanza del proprio ufficio e con una mano costretta a lottare per avere un risultato e per non essere consegnato ai macellai di Cosa Nostra. E ancora, il silenzio di coloro che dopo aver nutrito la speranza di un cambiamento vivono la cocente delusione dell’eterno ritorno e la razione di una realtà che sembra immutabile che per questo si sono rinchiuse in una rassegnazione fatalistica che alimenta e dà slancio alla vecchia cultura dell’avversario omertà,un’omertà che si alimenta di sfiducia. Cresce ogni giorno di più l’area del silenzio, del silenzio dei collaboratori, dei cittadini che come sempre non hanno visto e non hanno sentito niente e che se pure si sono lasciati sfuggire qualcosa se lo rimangiano nel dibattimento; un silenzio che dice con la concretezza dei fatti la rinnovata forza del sistema di potere mafioso.

In questi anni ho fatto collezione di lettere piene di insulti indicibili; e ci ho fatto pure l’abitudine. Ma la lettera che più mi ha fatto male è la lettera di una persona che con toni accorati mi raccontava come la sua vita fosse stata distrutta dopo aver deciso di rendere testimonianza, come fosse stata lasciata sola, abbandonata, ostracizzata nel lavoro; e questa persona mi implorava di non alimentare più nelle persone che ascoltavo l’illusione di uno stato forte e presidio di cittadini senza potere; mi invitava a farmi carico del dolore che avevo causato e che potevo ancora causare alimentando quella che questa persona definiva solo un’illusione.

E a questo proposito vi invito a pensare al silenzio colpevole e vile che circonda l’odissea personale di cittadini, che per aver osato testimoniato contro potenti sono sottoposti per anni ad una denigrazione violenta che potrebbe spezzare chiunque, esposti al linciaggio, violentati nelle loro vite private, ignorate per una cultura politica che ormai ha occhi solo (...)

E ancora il silenzio di tutti quelli che hanno perduto figli, padri, fratelli, nelle stragi che hanno insanguinatoil nostro paese; i familiari delle vittime delle stragi si sono perfino stancati di chiedere giustizia, così come accadeva sino a qualche anno fa. E del resto, come fai a mantenere la speranza quando lo stato decide di non rinnovare in questa legislatura la Commissione Stragi? Come confessare che non solo sono inadempienti sul piano della giustizia ma che non possiamo neppure permetterci di fare auto coscienza in Parlamento.

Evidentemente le cose oscene, che non si possono dire e che stanno dietro lo stragismo sono talmente enormi e attuali che l’unica via è quella della rimozione, quella di nascondere la polvere sotto il tappeto e di nascondere gli scheletri nell’armadio. Come l’armadio nel 1996 fu ritrovato nei corridoi della Procura Militare di Roma, dove erano appuntati decine di procedimenti che riguardavano le responsabilità dei nazi-fascisti autori di stragi efferati, di centinaia e centinaia di civili. La ragion di stato imponeva di insabbiare quei processi.

E la via italiana – e qui concludo – assomiglia molto a quella sudamericana: in Cile non è possibile processare Pinochet, in Argentina non è possibile condannare il generale Videla e gli altri militari che trucidarono una generazione di giovani, perché Pinochet, Videla e gli altri sono la maschera visibile sulla scena, il braccio armato di borghesie, quella cilena e argentina, che non hanno esitato a fare stragi e omicidi, non hanno esitato a ricorrere a una violenza più brutale pur di difendere il lo sistema di privilegi. Processare quegli uomini significherebbe dunque processare una parte della società cilena, una parte della società argentina determinando un destabilizzazione politica.

Tutto questo è fuori scena che tutti sanno ma che nella versione ufficiale della realtà non può e non deve essere detta; e questo fuori scena è messo in scena dal silenzio delle madri, da quelle donne che hanno visto sterminare i loro figli, i loro nipoti e che da anni ormai ogni giovedì, sfilano tutte in silenzio nella Plaza de Mayo di Buenos Aires perché si ricordi che le ferite sono aperte. Quelle deboli donne ai tempi della dittatura militare venivano chiamate le Los locas, le pazze di Piazza de Mayo. Chi non si accoda alla versione ufficiale del mondo e della storia ammannita dal potere è condannato come pazzo e condannato al silenzio. Il silenzio dunque sembra essere la cifra comune di tutti coloro che hanno subito la violenza del potere, di un potere che non si fa processare, che non si fa condannare o comunque non paga mai le sue colpe.

Ma in Cile, come in Argentina, come in Italia quando un popolo non ha la maturità democratica e culturale per fare i conti con il proprio passato per guardarsi allo specchio ed è costretta a rimuovere, allora è condannato a non crescere, a restare immobilizzato, a vivere l’eterno ritorno di fascismo e delle mafie. Nell’acqua stagna si forma il veleno, che corrompe la vita collettiva e quella individuale.

Ho letto recentemente che in Africa esiste una tribù il cui linguaggio, anno dopo anno si va impoverendo.in quella tribù esiste una strana tradizione:ogni volta che un membro della tribù muore viene interdetto per sempre l’uso di una parola, la parola che il morto usava dire più spesso. Le parole vengono seppellite con le persone. Strana tradizione, vero? Come si fa ad impoverire una lingua?

Noi civilizzati siamo molto più raffinati: non interdiciamo l’uso delle parole, non le sotterriamo con i morti; noi preferiamo farle morire a poco a poco, privandole di senso, di significato, di spessore; facciamo morire le parole non di morte violenta ma per eutanasia. Eutanasia delle parole e dei valori che esprimono. No, decisamente noi non siamo selvaggi: non impoveriamo il nostro linguaggio, ci limitiamo a impoverire la nostra vita e il senso del nostro stare insieme.

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